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vendredi, 09 novembre 2012

La teoria dei cicli di Nikolai Kondratiev

La teoria dei cicli di Nikolai Kondratiev

Gli studi dell’economista russo vittima delle purghe nell’Urss di Stalin

Alexander Aivazov e Andrej Kobyakov

Ex: http://rinascita.eu/  

kondrqtiev.jpgLa crisi finanziaria che è scoppiata negli Stati Uniti e che dopo ha coinvolto tutto il mondo, richiede adeguate misure da parte della comunità globale. Ma quali azioni dovrebbero essere considerate adeguate in questo caso?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima identificare le vere ragioni sottostanti che hanno creato la crisi, e stimare la sua lunghezza e profondità. Gli economisti liberali dogmatici continuano a convincerci che in diversi mesi, o almeno in uno o due anni, tutto si “calmerà”, il mondo tornerà ad un progressivo sviluppo, mentre la Russia si sposterà verso un modello economico dell’innovazione.
È veramente così?
Più di 80 anni fa l’importante economista russo Prof. Nikolai D. Kondratiev descrisse e dimostrò teoricamente l’esistenza di grandi cicli di sviluppo economico (45-60 anni), all’interno dei quali le “riserve dei maggiori valori materiali” globali vengono nuovamente riempite, cioè in cui le forze produttive mondiali messe assieme a ogni ciclo trascendono verso un livello più alto.
Secondo Kondratiev, ogni ciclo ha una fase ascendente e una declinante. La dinamica interna di cicli (denominati cicli K in base al suo nome) e il principio della loro fluttuazione si basano sul meccanismo di accumulazione, concentrazione, dispersione e svalutazione del capitale come fattori chiave dello sviluppo dell’economia (capitalista) di mercato.
Inoltre Kondratiev indicò che questa regolarità ciclica esisterà finché persiste la modalità capitalista di produzione. “Ogni nuova fase del ciclo è predeterminata dall’accumulazione di fattori della fase precedente, ogni nuovo ciclo segue il ciclo precedente in modo tanto naturale quanto una fase di ciascun ciclo segue l’altra fase. Però bisogna capire che ogni nuovo ciclo emerge in nuove particolari condizioni storiche, su un nuovo livello di sviluppo delle forze produttive, e perciò non è una semplice reiterazione del ciclo precedente”. [Non una semplice reiterazione, ma di fatto una reiterazione, in base allo schema oggettivo di Kondratiev. Vero solo in un particolare sistema economico-finanziario].
Nikolai Kondratiev riuscì a studiare solo due grandi cicli e mezzo, terminando la sua ricerca sulla fase crescente del terzo ciclo. Egli pubblicò il suo rapporto quando si era già nella fase discendente del terzo ciclo, nel 1926, e quando la grandezza e lunghezza della fase discendente non poteva ancora essere stabilita (così egli predisse la grande depressione).
Purtroppo per la scienza economica internazionale Nikolai Kondratiev cadde in disgrazia: nel 1928 egli perse la sua posizione di direttore del suo istituto di ricerca; nel 1930 fu arrestato per “attività antisovietiche” infine condannato a morte. I marxisti ortodossi, comprendendo la stoNikolai ria come un processo lineare unidirezionale e prevedendo il crollo del capitalismo il “ giorno dopo”, percepirono la sua teoria del graduale miglioramento dell’ordine capitalista come un’eresia pericolosa. Altri critici videro nel regolare declino dell’economia che egli aveva descritto un sabotaggio dei piani economici quinquennali (sebbene Kondratiev avesse preso parte alla elaborazione del primo piano quinquennale). Come risultato l’eredità scientifica di Kondratiev fu occultata per quasi sessant’anni. Solo nel 1984 l’economista Stanislav Menshikov, uno scienziato di fama mondiale coinvolto nelle previsioni economiche per conto delle Nazioni Unite, amico e coautore di John Kenneth Galbraith, riabilitò il nome di Kondratiev in un articolo sulla rivista “Communist”.
Nel 1989 Menshikov e sua moglie pubblicarono col titolo “Long Waves in Economy: When the Society Changes its Skin” [“Le onde lunghe in economia: quando la società cambia la sua pelle”] la più profonda analisi della teoria di Kondratiev. Un altro prominente autore russo, Sergey Glazyev, contribuì alla teoria di Kondratiev, fornendo un’analisi strutturale dei sottostanti cambiamenti negli “schemi (modi) tecnologici”.
Il nome di Kondratiev era ben noto agli economisti occidentali. Però Stanislav Menshikov notò un fenomeno curioso: l’interesse alla teoria dei grandi cicli solitamente ringiovaniva durante le fasi declinanti, negli anni 20-30 e negli anni 70 e 80, mentre nelle fasi crescenti, quando l’economia globale si sviluppa progressivamente e le fluttuazioni, concordemente alla teoria di Kondratiev, non sono molto profonde, l’interesse scompare.

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Una Depressione prevista
 
Le previsioni di Nikolai Kondratiev furono pienamente confermate nel periodo della grande depressione che coincise con il punto più basso della fase declinante del terzo periodo. Una periodizzazione ulteriore è argomento di polemica. I ricercatori si dividono principalmente in due gruppi, applicando differenti approcci alla determinazione di cicli.
Il primo gruppo che basa le sue analisi principalmente sugli indici dell’economia reale—quantità della produzione, dinamica dell’impiego, attività di investimento e varie proporzioni strutturali—ritengono che la fase declinante del terzo ciclo terminò all’inizio della seconda guerra mondiale.
La fase crescente del quarto ciclo iniziò durante la guerra e continuò sino a metà degli anni 60. La crisi del dollaro Usa e il crollo sistema di Bretton Woods nel 1968-71 divenne il punto critico per la transizione alla fase declinante, che corrispose con la crisi petrolifera e la stagflazione degli anni 70. La “Reaganomics” negli Stati Uniti e la politica di Margaret Thatcher in Gran Bretagna segnarono la transizione al successivo quinto ciclo K, con la sua fase crescente che ha coperto la seconda metà degli anni 80 e gli anni 90.
Come al solito, alla fine della fase crescente, nella cosiddetta zona di saturazione, ci troviamo di fronte a fenomeni quali la diminuzione della percentuale di guadagno nel settore dell’economia reale e un imponente fuoriuscita di capitali verso la sfera della speculazione finanziaria che generò prima un surriscaldamento del mercato azionario (fine anni 90) e poi del mercato dei mutui (inizio anni 2000).
Il secondo gruppo di ricercatori, che si basa piuttosto sugli indici finanziari, cioè sulla dinamica del mercato azionario e sulla dinamica del tasso di guadagno sulle obbligazioni, estende la fase declinante del terzo ciclo per l’intero periodo della seconda guerra mondiale e la ricostruzione postbellica sino al 1949. In modo simile al primo gruppo, essi collocano il punto estremo della fase crescente a inizio anni 70, ma interpretano il declino di quel periodo come una “recessione primaria” seguita da un plateau che dura sino all’inizio del ventunesimo secolo. Essi indicano che un simile plateau è corrisposto agli andamenti crescenti del mercato azionario nei cicli precedenti, rispettivamente nel 1816-1835, 1864-1874, e 1921-1929. Il secondo gruppo di ricercatori stima la durata media di un ciclo in cinquant’anni, ma l’ultimo ciclo nella loro descrizione viene stranamente protratto oltre i sessant’anni.
Perciò, nonostante le significative differenze metodologiche degli approcci, entrambi i gruppi di analisti identificano negli anni 2000 l’inizio di un declino, cioè di una fase di depressione.
 
L’attuale crisi è all’inizio
 
Di fronte al declino ci aspettiamo un nuovo scoppio di interesse verso la teoria di Kondratiev. Nel frattempo i monetaristi liberali le cui idee hanno dominato la scienza economica negli ultimi 25 anni vengono screditate, i loro sforzi di interpretare l’attuale crisi come una fluttuazione temporanea nell’economia globale, rivela solo la loro ignoranza economica. L’esperienza dei precedenti cicli K indica che le misure tradizionali contro la crisi sono efficienti solo nella fase crescente del ciclo, nel periodo di fiorente crescita quando le recessioni sono leggere e transitorie sullo sfondo di uno sviluppo progressivo dell’economia globale.
Gerhard Mensch, uno scienziato che ha studiato simili processi durante la fase declinante degli anni 70, ha sottolineato che sotto le condizioni di deterioramento della congiuntura economica i metodi monetaristi per risolvere il problema sono inefficienti, dato che politiche restrittive del credito inevitabilmente colpiscono i prezzi al consumo, mentre politiche liberali pro-attive favoriscono operazioni di speculazione. E’ piuttosto naturale che l’approccio fortemente restrittivo scelto dalla Banca centrale europea risulti in una crescita dell’inflazione, sebbene cinque anni fa gli effetti della stessa politica risultarono opposti.
All’inizio della crisi l’inflazione in Europa non superava il 2%, ma ad oggi il potere d’acquisto è crollato, nonostante gli elevati livelli dei tassi di rifinanziamento introdotti dalla BCE. Nel frattempo la politica liberale, condotta sino a un periodo recente negli Stati Uniti, ha alimentato la speculazione sul mercato azionario e l’espansione di capitali fittizi (gonfiati), stimolando un incremento speculativo dei prezzi nei settori dei beni più commerciabili: mercato immobiliare, oro, petrolio e cibo. L’incremento dei prezzi non ha alcuna relazione con la quantità di produzione e con la saturazione della domanda.
Nonostante tutti gli sforzi intrapresi dal (l’ex) presidente della BCE Jean-Claude Trichet e dal presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, cambiamenti positivi non vengono raggiunti. L’economia globale deve passare attraverso un periodo di “ ricarica” sbarazzandosi del capitale sovraccumulato tramite una sua massiccia svalutazione nel processo di una inevitabile e lunga recessione. La svalutazione del capitale monetario probabilmente procederà attraverso una catena di crack finanziari, che daranno inizio al terzo default del dollaro Usa (come già avvenne negli anni 20-30 e negli anni 70). Perciò, l’economia globale verrà scossa molte volte, l’attuale crisi è solo un colpettino alla cravatta segno di eventi più grandi che arriveranno nei prossimi anni. L’economia globale probabilmente raggiungerà il suo punto più basso alla fine della fase declinante del quinto ciclo K, tra il 2012 e il 2015.
Il crollo del sistema finanziario Usa può avvenire uno o due anni in anticipo nel caso che il nuovo presidente Usa scelga un approccio dogmatico agli attuali problemi.
 
Titolo originale: “Nikolai Kondratiev’s “Long Wave”: The Mirror of the Global Economic Crisis”
Alexander Aivazov
e Andrei Kobyakov
rpmonitor.ru/ - mlnews
 
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I TRE CICLI ANALIZZATI
 
I. Fase crescente: dalla fine degli anni 80 del 1700, inizio anni 90, sino al 1810-1817.
Fase declinante: dal 1810-1817 al 1844-1851.
II. Fase crescente: dal 1844-1851 al 1870-1875.
Fase declinante: dal 1870-1875 al 1890-1896.
III. Fase crescente: dal 1890-1896 al 1914-1920.
La nuova ricerca (primo gruppo)
I ricercatori del primo gruppo sono convinti che i cicli si comprimono con l’intensificazione del progresso scientifico-tecnologico: dagli anni 40 la lunghezza di un ciclo si è ridotta da 50-55 a 40-45 anni. La continuazione della regolarità di Kondratiev risulta in questo modo:
Fase declinante del terzo ciclo: dal 1914-1920 (negli Stati Uniti dalla fine degli anni 20) al 1936-1940.
IV. Fase crescente: dal 1936-1940 al 1966-1971.
Fase declinante: dal 1966-1971 al 1980-1985.
V. Fase crescente: dal 1980-1985 al 2000-2007.
Fase declinante: dal 2000-2007 sino approssimativamente al 2015-2025 (previsione).
VI. Fase crescente: dal 2015-2025 al 2035-2045 (previsione).
In base al secondo gruppo di analisti, la regolarità di Kondratiev prosegue in questo modo:
Fase declinante del terzo ciclo: dal 1914-1920 al 1949.
IV. Fase crescente: dagli anni 50-70, con una “recessione primaria” sino al 1982, seguita da un plateau sino agli anni 2000.
Fase declinante a partire da inizio, metà degli anni 2000.
 
 
LE ONDE DI KONDRATIEV
Quando si parla di onde, in natura si pensa a quelle marine o a quelle elettromagnetiche, mentre in Borsa si pensa a quelle di Elliot.
Oggi però voglio parlarvi delle onde di Kondratiev, una teoria risalente agli anni ’20. L’argomento è in realtà d’estrema attualità, visto che è strettamente legato all’andamento dell’economia e dei mercati finanziari in generale, e a quello delle materie prime (o commodities) in particolare.
Nel 1925 l’economista russo Nikolai Kondratiev (1892-1938) osservò che lo sviluppo delle economie di mercato è caratterizzato da onde o supercicli, lunghi 50-60 anni, ognuna delle quali suddivisibile di quattro fasi: espansione, recessione, depressione e ripresa.
Negli anni Trenta del ‘900 l’austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950) riconsiderò la teoria e scoprì che queste onde K corrispondono agli sviluppi dei cicli di innovazione. Sono le nuove tecnologie, quindi, che caratterizzano questi supercicli e che permettono la creazione di nuove industrie e attività, spesso in nuove localizzazioni divenute più vantaggiose. Il primo ciclo di Kondratiev (1770-1825; Rivoluzione industriale) corrisponde ai primi sviluppi in Gran Bretagna della siderurgia basata sul carbon fossile e dell’industria tessile basata sul vapore. Queste nuove tecnologie causarono la concentrazione dell’attività industriali, fino a quel momento frammentate e disseminate in un numero sterminato di piccole officine e laboratori, in grandi fabbriche localizzate sul carbone.
L’applicazione del vapore ai trasporti ferroviari e marittimi sostenne il secondo ciclo (1825-1880; Era del vapore e delle ferrovie) creando, sempre in Inghilterra, nuovi impianti industriali non solo sui bacini carboniferi, ma anche in centri come Crewe, Derby o Swindon.
Il terzo ciclo (1880-1930; Era dell’acciaio, dell’elettricità e dell’ingegneria pesante)sostenuto dall’invenzione dell’elettricità, del telegrafo, del telefono e del motore a scoppio, nonché dallo sviluppo dell’industria petrolchimica, interessò soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, con conseguente passaggio del primato industriale dalla Gran Bretagna all’Europa continentale ed agli Stati Uniti.
Il quarto ciclo (1930-1980; Era del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa) sostenuto, oltre che dall’ulteriore sviluppo della petrolchimica, da industrie ad alta tecnologia come quella televisiva e hi-fi, aerospaziale, delle fibre sintetiche e dell’elettronica, ha interessato soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e ancora il Regno Unito.
Oggi viviamo in un quinto ciclo innovativo (Era dell’informatica e delle telecomunicazioni) che sta dando vita ad un’economia dell’informazione, che sfrutta l’energia immateriale del cervello umano per la ricerca e lo sviluppo (R&S) in campi come servizi per l’industria, creazione di software, biotecnologia e robotica, ecc, e che in modo sempre più diretto tende a legare la costosa R&S all’industria finale e ai servizi. In queste nuove attività gli Stati Uniti hanno un temibile rivale nelGiappone.
La recessione degli anni Settanta fu il risultato congiunto dell’aumento dei prezzi del greggio e della transizione dal quarto al quinto ciclo, che qualcuno ha individuato anche nel concetto di società post-industriale. Infatti, nei Paesi più sviluppati l’industria ha progressivamente ceduto il passo ai servizi, anche a causa della forte concorrenza dei nuovi paesi industrilizzati (o NIC) e dei produttori emergenti del Terzo Mondo.
Veniamo ai nostri giorni. Si legge ovunque dell’interesse per le commodities, prima fra tutte il petrolio, ma si teme, al contempo, che la lunga ascesa delle quotazioni, che dura ormai da circa un quinquennio, possa riservare brutte sorprese. Ci sono però economisti e investitori, (come Marc Faber, Shane Oliver ed altri – fra i quali mi annovero, nel mio piccolo), che ritengono che l’attuale fase storica rialzista delle commodities sia solo all’inizio.
Se si condivide la teoria delle onde K, infatti, il superciclo attuale è ancora in una fase di espansione, caratterizzata da un incremento degli investimenti capitali, da nuove tecnologie e da nuovi mercati. In questo contesto la domanda di materie prime soprattutto da parte di NIC quali Cina e India è, non solo forte, ma ancora in costante aumento, a fronte di un’offerta contenuta, sia nello stock che nella dinamica di crescita.
Kondratiev non beneficiò mai delle sue analisi: nel 1930 venne arrestato con l’accusa di appartenere ad un partito politico illegale nella Russia staliniana e dopo 8 anni di carcere, fu giustiziato. Le sue idee, però, sopravvissero e potrebbero trovare ulteriore conferma fra 15-20 anni.


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jeudi, 08 novembre 2012

Miglio e le sue Lezioni di Scienze Politiche

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Miglio e le sue Lezioni di Scienze Politiche

Una riflessione sull’attualità della storia delle idee e delle prassi politiche illustrata dallo scomparso costituzionalista italiano

Teodoro Klitsche de la Grange

Ex: http://rinascita.eu/  

In due volumi – Storia delle dottrine politiche e Scienza della politica - sono raccolte le “Lezioni di politica” di Gianfranco Miglio. Il primo volume su la Storia delle dottrine Politiche, mentre il secondo tratta la Scienza della politica e sono stati curati rispettivamente da Davide Bianchi e da Alessandro Vitale. La ricostruzione delle lezioni, fatte prevalentemente su registrazioni (e non su appunti degli allievi) ha evitato il consueto problema della fedeltà degli appunti al pensiero dello studioso.
Nella presentazione al primo volume Lorenzo Ornaghi e Pierangelo Schiera esordiscono scrivendo che “Si sta verificando, da qualche tempo, un fatto abbastanza raro nel panorama italiano degli studi sulla politica: la ristampa di scritti di Gianfranco Miglio risalenti ormai a più di cinquant’anni fa. Se questa è la misura della classicità, allora si deve cominciare a pensare che egli sia diventato un Classico”; ed è proprio l’impressione confermata dalla lettura di questi volumi: Miglio è un classico. E lo è non solo per il suo richiamarsi al pensiero (o ai pensatori) politici “classici” (da Tucidide a Machiavelli, da Hobbes agli elitisti, da Burke a Schmitt), ma perché, con le sue opere, vi aggiunge altro. Sull’approccio metodologico Daniele Bianchi nell’introduzione al primo volume scrive “Miglio aveva in uggia (come poche altre cose) la politologia empirica di marca anglosassone, per cui la sua Scienza della politica – a cui alla fine approdò – aveva contorni specifici, decisamente minoritari nella comunità scientifica italiana. Non essendo rivolta a misurare dati quantitativi, la sua era una Scienza della politica “concettuale” dei comportamenti umani nelle cose politiche. In altre parole, compito del politologo era per lui quello di dissodare il territorio sterminato e informe della storia, per portare alla luce le “costanti” nelle azioni degli uomini (p. 21). In effetti anche nella “Presentazione” alle Categorie del politico, scritta da Miglio si ritrova questa considerazione, nel commento che lo studioso lariano fa all’analogo ironico giudizio espresso da Schmitt nella “Premessa” a detto volume. E’ inutile dire che il pensiero di Miglio, pur non essendo “quantitativista” era tuttavia rigorosamente realista.
A tale proposito è interessante quanto Miglio sostiene nella “Lezione introduttiva” sul nesso che lega fatti e idee nella storia della politica “Il nesso che lega idee e fatti, ideologie e istituzioni è molto stretto: sarebbe infatti impossibile ricostruire una storia delle istituzioni senza fare riferimento alle ideologie che la sorreggono. In altre parole le ideologie non sono altro che la “bandiera” delle classi politiche, vessillo che permea di sé le istituzioni quando le classi stesse giungono al potere. Di norma, infatti il succedersi delle classi politiche reca con se anche l’avvento di nuove istituzioni, o la trasformazione delle precedenti, processi in cui le ideologie giocano un ruolo decisivo” (pp. 29-30).
L’altro rapporto su cui Miglio ritorna spesso, in ambedue i volumi (soprattutto nel secondo) è quello tra idee e istituzioni (e tra politica e diritto, in parte coincidente).
Scrive lo studioso lariano: “Ogni apparato ideologico è correlato a un sistema istituzionale, risulta perciò impossibile studiare delle istituzioni prescindendo completamente dalle ideologie che le hanno prodotte… Con le discipline giuridiche la politica intrattiene gli stessi rapporti che vi sono con le istituzioni, dato che il diritto è una sequela di procedure convenute; non è anzi eccessivo affermare che sarebbe impossibile pensare il diritto come qualcosa di autonomo, al di fuori della politica e delle istituzioni a cui attende. In altri termini, il diritto non è altro che un’ideologia tradotta in sistema, per cui ogni istituto è, più o meno direttamente, ascrivibile a una dottrina politica (o più di una)”.
Nell’introduzione al secondo volume il curatore Alessandro Vitale sottolinea che l’errore più grave nel leggere le lezioni “sarebbe però quello di considerarle espressione di semplice o addirittura eccessiva ‘eccentricità’. Questa visione facile e distorta impedirebbe, infatti, di cogliere la coerente e irriducibile ‘classicità’ del percorso di Miglio nello studio della politica. Quella che appare come originalità individuale, magari eccentrica e certamente isolata, è in realtà la coerente prosecuzione di un lungo percorso di riflessione sulla dimensione del ‘politico’ e sulle sue ‘regolarità’, passato attraverso il filtro di numerose discipline e la lezione dei più grandi teorici di tutti i tempi… nonché attraverso l’opera dei maggiori political scientists, che da un metodo prescientifico (dalle origini dei Mosca, Pareto, Michels) sono passati a quello rigoroso dei Weber e degli Schmitt”. Così l’inclusione della parte iniziale (i primi tre capitoli), anche se in taluni tratti si possa ritenerla un po’ ridondante “rimane tuttavia significativa, in quanto rispecchia la sua insofferenza per una cultura, come quella italiana, a lungo rimasta retorica, idealistica e poco empirica. Egli, in particolare, mal sopportava la crescente perdita di rigore e l’irrazionalismo tipico di epistemologie relativiste, che hanno sempre ritenuto equivalenti e intercambiabili tutte le opinioni configgenti nello studio della politica”.
I due volumi sono così densi di giudizi e considerazioni originali che considerarli tutti farebbe di questa recensione un piccolo trattato. Perciò ci limitiamo a due tra i più significativi e ricorrenti (anche in altre opere di Miglio).
La prima è la funzione – carattere principale che lo studioso lariano considera (compito) della scienza politica, cioè la scoperta e analisi delle “regolarità”, “costanti”, “invarianti” (termine quest’ultimo che si può trarre da altri campi e da altri studiosi) della politica.
Come scrive Miglio “Il processo conoscitivo è un processo sempre volto alla ricerca di regolarità. Non c’è conoscenza se non di fenomeni ripetibili. Soltanto con il confronto è possibile entrare nel reale, che di per sé rimane neutro, non risponde, non ha significato: attribuiamo semplicemente significati al mondo reale, distinguendo”, di fronte a un fenomeno che appare nuovo, “all’analisi accurata si rivelerà come qualcosa che era già conosciuta e che si è presentata soltanto in una combinazione differente”. Ci sono regolarità che hanno, almeno nella nostra cognizione ed esperienza, carattere universale; onde è facile prevedere che, in una situazione futura, continueranno a ripresentarsi, anche al di là delle intenzioni e aspirazioni degli attori del processo storico.
Ad esempio il marxismo; questo negava, nello stadio finale (da raggiungere) della società senza classi, due delle regolarità della politica (nel caso anche “presupposti del politico” di Julien Freund): ossia quella della classe politica (in altra prospettiva del comando/obbedienza), cioè dello Stato (l’ente politico) come apparato di governo di pochi su molti; e quella dell’amico-nemico, perché la società senza classi sarebbe stata pacifica, essendone la struttura economica “irenogenetica”. Abbiamo visto com’è andata: la società senza classi non s’è mai vista, neanche all’orizzonte, perché non si poteva realizzare (era contraria alle due “regolarità”); il socialismo reale si è fermato alla (fase della) dittatura del proletariato perché questo non negava (anzi potenziava) le regolarità suddette, essendo una dittatura (di un partito rivoluzionario, cioè di pochi) finalizzata alla guerra contro il nemico (di classe).
Miglio tiene ben presente l’epistemologia di Popper “Lo scienziato ha a che fare con previsioni probabilistiche. Ciò che assumiamo come certezza ha soltanto un elevato grado di probabilità e in un senso tutto operativo, perché adoperiamo come leggi certe, come ipotesi di regolarità certe, quelle che non sono ancora state falsificate. Quanto più a lungo una proposizione di questo tipo resiste alla falsificazione, tanto più possiamo fondarci su di essa: ma questa è sempre e soltanto altamente probabile”. Le regolarità - non falsificate, ma falsificabili – costituiscono poi la base della prevedibilità delle attività politiche.
L’altro è il rapporto tra politica e diritto.
Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perché lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”.
Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”.
Il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti (concreti) non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione c’è.
Tale posizione è così in contrasto con quanto scritto (anche) dai teorici dell’istituzionalismo giuridico (e non solo da loro), d’altra parte apprezzati da Miglio, come Maurice Hauriou e Santi Romano.
Posizione tradizionale nella dottrina giuridica, atteso che risale alla distinzione di Ulpiano “Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem”, D I, De Iustitia et jure, I. Il fundamentum distinctionis più rilevante tra diritto pubblico e diritto privato è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione. Nel pensiero di Hauriou la distinzione tra “diritto disciplinare” e “diritto comune” richiama da vicino la distinzione di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo. Ma quello che è più importante è che, in concreto, il diritto pubblico esiste perché esistono dei rapporti che, anche se fondati sull’obbligo politico (il rapporto comando/obbedienza) costituiscono situazioni giuridiche nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini dove è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà) ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti.
Rimane quindi una differenza profonda tra diritto pubblico e privato, conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non totale, al potere politico, (uno Stato dove non c’è qualcosa di assoluto – scriveva de Bonald – non s’è mai visto) e in particolare al rapporto di comando-obbedienza.
Nel complesso i due volumi, anche grazie alla chiarezza espositiva dello studioso lariano, costituiscono una lettura agevole e stimolante. E soprattutto portano una ventata di aria fresca in discipline spesso aggravate da un buonismo precettivo (i famosi “paternostri”) e anche da una certa ripetitività conformista. E queste, da sole, sono ragioni più che valide per leggerli e studiarli.
 
 
Gianfranco Miglio
Lezioni di politica - (Volume primo Storia delle dottrine politiche) - (Volume secondo Scienza della politica), Bologna 2011, Ed. Il Mulino, pp. 346 € 27,00 (I° Volume); pp. 512 € 33,00 (II° Volume).
 

http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=17424

mardi, 30 octobre 2012

Quotation of James Burnham

James_Burnham2.jpg"Modern liberalism does not offer ordinary men compelling motives for personal suffering, sacrifice and death. There is no tragic dimension in its picture of the good life. Men become willing to endure, sacrifice and die for God, family, king, honor, country, from a sense of absolute duty or an exalted vision of the meaning of history. It is such traditional ideas and the institutions slowly built around them that are in present fact the great bulwarks, spiritual as well as social, against the tidal advance of the world communist enterprise. And it precisely these ideal and institutions that liberalism has criticized, attacked and in part overthrown as superstitious, archaic, reactionary and irrational. In their place liberalism proposes a set of pale and bloodless abstractions — pale and bloodless for the very reason that they have no roots in the past, in deep feeling and in suffering. Except for mercenaries, saints and neurotics, no one is willing to sacrifice and die for progressive education, medicare, humanity in the abstract, the United Nations and a ten percent rise in Social Security payments."

— James Burnham, Suicide of the West : An Essay on the Meaning and Destiny of Liberalism

mardi, 16 octobre 2012

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

2 ans déjà ! 

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

 
Le 9 octobre 2010, il y a deux ans, disparaissait Maurice Allais à l’âge respectable de 99 ans, qui avait tout annoncé…

Maurice AllaisC’était le seul prix Nobel d’économie français. Né le 31 mai 1911, il part aux États-Unis dès sa sortie (major X31) de Polytechnique en 1933 pour étudier in situ la Grande Dépression qui a suivi la Crise de 1929. Ironie de l’histoire, il a ainsi pu réaliser une sorte de “jonction” entre les deux Crises majeures du siècle. Son analyse, percutante et dérangeante, n’a malheureusement pas été entendue faute de relais.

Fervent libéral, économiquement comme politiquement, il s’est férocement élevé contre le néo-conservatisme des années 1980, arguant que le libéralisme ne se confondait pas avec une sortie de “toujours mois d’État, toujours plus d’inégalités” – qui est même finalement la définition de l’anarchisme. On se souviendra de sa dénonciation du “libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée” et de la “chienlit mondialiste laissez-fairiste”. Il aimait à se définir comme un “libéral socialiste” – définition que j’aime beaucoup à titre personnel.

Il a passé les dernières années de sa vie à promouvoir une autre Europe, bien loin de ce qu’il appelait “l’organisation de Bruxelles”, estimant que la construction européenne avait pervertie avec l’entrée de la Grande-Bretagne puis avec l’élargissement à l’Europe de l’Est.

RIP

Lettre aux français : “Contre les tabous indiscutés”

Le 5 décembre 2009, le journal Marianne a publié le testament politique de Maurice Allais, qu’il a souhaité rédiger sous forme d’une Lettre aux Français.

Je vous conseille de le lire, il est assez court et clair. Je le complète par divers autres textes surtout pour les personnes intéressées – même si cela alourdit le billet.

Maurice Allais

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons —tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 — résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel… téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel… téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

Maurice Allais.

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(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.
(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.

NB : vous pouvez télécharger cet article ici.

Maurice Allais

Présentation par Marianne

Le Prix Nobel iconoclaste et bâillonné

La « Lettre aux Français » que le seul et unique prix Nobel d’économie français a rédigée pour Marianne aura-t-elle plus d’écho que ses précédentes interventions ? Il annonce que le chômage va continuer à croître en Europe, aux États-Unis et dans le monde développé. Il dénonce la myopie de la plupart des responsables économiques et politiques sur la crise financière et bancaire qui n’est, selon lui, que le symptôme spectaculaire d’une crise économique plus profonde : la déréglementation de la concurrence sur le marché mondial de la main-d’œuvre. Depuis deux décennies, cet économiste libéral n’a cessé d’alerter les décideurs, et la grande crise, il l’avait clairement annoncée il y a plus de dix ans.

Éternel casse-pieds

Mais qui connaît Maurice Allais, à part ceux qui ont tout fait pour le faire taire ? On savait que la pensée unique n’avait jamais été aussi hégémonique qu’en économie, la gauche elle-même ayant fini par céder à la vulgate néolibérale. On savait le sort qu’elle réserve à ceux qui ne pensent pas en troupeau. Mais, avec le cas Allais, on mesure la capacité d’étouffement d’une élite habitée par cette idéologie, au point d’ostraciser un prix Nobel devenu maudit parce qu’il a toujours été plus soucieux des faits que des cases où il faut savoir se blottir.

« La réalité que l’on peut constater a toujours primé pour moi. Mon existence a été dominée par le désir de comprendre ce qui se passe, en économie comme en physique ». Car Maurice Allais est un physicien venu à l’économie à la vue des effets inouïs de la crise de 1929. Dès sa sortie de Polytechnique, en 1933, il part aux États-Unis. « C’était la misère sociale, mais aussi intellectuelle : personne ne comprenait ce qui était arrivé. » Misère à laquelle est sensible le jeune Allais, qui avait réussi à en sortir grâce à une institutrice qui le poussa aux études : fils d’une vendeuse veuve de guerre, il a, toute sa jeunesse, installé chaque soir un lit pliant pour dormir dans un couloir. Ce voyage américain le décide à se consacrer à l’économie, sans jamais abandonner une carrière parallèle de physicien reconnu pour ses travaux sur la gravitation. Il devient le chef de file de la recherche française en économétrie, spécialiste de l’analyse des marchés, de la dynamique monétaire et du risque financier. Il rédige, pendant la guerre, une théorie de l’économie pure qu’il ne publiera que quarante ans plus lard et qui lui vaudra le prix Nobel d’économie en 1988. Mais les journalistes japonais sont plus nombreux que leurs homologues français à la remise du prix : il est déjà considéré comme un vieux libéral ringardisé par la mode néolibérale.

Car, s’il croit à l’efficacité du marché, c’est à condition de le « corriger par une redistribution sociale des revenus illégitimes ». Il a refusé de faire partie du club des libéraux fondé par Friedrich von Hayek et Milton Friedman : ils accordaient, selon lui, trop d’importance au droit de propriété… « Toute ma vie d’économiste, j’ai vérifié la justesse de Lacordaire : entre le fort et le faible, c’est la liberté qui opprime et la règle qui libère”, précise Maurice Allais, dont Raymond Aron avait bien résumé la position : « Convaincre des socialistes que le vrai libéral ne désire pas moins qu’eux la justice sociale, et des libéraux que l’efficacité de l’économie de marché ne suffit plus à garantir une répartition acceptable des revenus. » Il ne convaincra ni les uns ni les autres, se disant « libéral et socialiste ».

Éternel casse-pieds inclassable. Il aura démontré la faillite économique soviétique en décryptant le trucage de ses statistiques. Favorable à l’indépendance de l’Algérie, il se mobilise en faveur des harkis au point de risquer l’internement administratif. Privé de la chaire d’économie de Polytechnique car trop dirigiste, « je n’ai jamais été invité à l’ENA, j’ai affronté des haines incroyables ! » Après son Nobel, il continue en dénonçant « la chienlit laisser-fairiste » du néolibéralisme triomphant. Seul moyen d’expression : ses chroniques touffues publiées dans le Figaro, où le protège Alain Peyrefitte. À la mort de ce dernier, en 1999, il est congédié comme un malpropre.

Il vient de publier une tribune alarmiste dénonçant une finance de « casino» : « L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile, jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais, sans doute, il est devenu plus difficile d’y faire face, jamais, sans doute, une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » Propos développés l’année suivante dans un petit ouvrage très lisible* qui annonce l’effondrement financier dix ans à l’avance. Ses recommandations en faveur d’un protectionnisme européen, reprises par Chevènement et Le Pen, lui valurent d’être assimilé au diable par les gazettes bien-pensantes. En 2005, lors de la campagne sur le référendum européen, le prix Nobel veut publier une tribune expliquant comment Bruxelles, reniant le marché commun en abandonnant la préférence communautaire, a brisé sa croissance économique et détruit ses emplois, livrant l’Europe au dépeçage industriel : elle est refusée partout, seule l’Humanité accepte de la publier…

Aujourd’hui, à 98 ans, le vieux savant pensait que sa clairvoyance serait au moins reconnue. Non, silence total, à la notable exception du bel hommage que lui a rendu Pierre-Antoine Delhommais dans le Monde. Les autres continuent de tourner en rond, enfermés dans leur « cercle de la raison » •

Éric Conan

* La Crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999.

Source : Marianne, n°659, décembre 2009.

Maurice Allais

Extraits choisis

J’ai repris certains de ces extraits dans mon livre STOP ! Tirons les leçons de la Crise.

« Depuis deux décennies une nouvelle doctrine s’est peu à peu imposée, la doctrine du libre-échange mondialiste impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux. Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale. Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée. Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline. […]

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. […]

Suivant une opinion actuellement dominante, le chômage, dans les économies occidentales, résulterait essentiellement de salaires réels trop élevés et de leur insuffisante flexibilité, du progrès technologique accéléré qui se constate dans les secteurs de l’information et des transports, et d’une politique monétaire jugée indûment restrictive.

En fait, ces affirmations n’ont cessé d’être infirmées aussi bien par l’analyse économique que par les données de l’observation. La réalité, c’est que la mondialisation est la cause majeure du chômage massif et des inégalités qui ne cessent de se développer dans la plupart des pays. Jamais, des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. […]

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme », dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années ». Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorancede l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas.

Toute cette analyse montre que la libéralisation totale des mouvements de biens, de services et de capitaux à l’échelle mondiale, objectif affirmé de l’Organisation Mondiale du Commerce (OMC) à la suite du GATT, doit être considérée à la fois comme irréalisable, comme nuisible, et comme non souhaitable. […]

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. […]

En fait, on ne saurait trop le répéter, la libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible et n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux, groupant des pays économiquement et politiquement associés, de développement économique et social comparable, tout en assurant un marché suffisamment large pour que la concurrence puisse s’y développer de façon efficace et bénéfique. […]

Chaque organisation régionale doit pouvoir mettre en place dans un cadre institutionnel, politique et éthique approprié une protection raisonnable vis-à-vis de l’extérieur. Cette protection doit avoir un double objectif :

- éviter les distorsions indues de concurrence et les effets pervers des perturbations extérieures;

- rendre impossibles des spécialisations indésirables et inutilement génératrices de déséquilibres et de chômage, tout à fait contraires à la réalisation d’une situation d’efficacité maximale à l’échelle mondiale, associée à une répartition internationale des revenus communément acceptable dans un cadre libéral et humaniste.

Dès que l’on transgresse ces principes, une mondialisation forcenée et anarchique devient un fléau destructeur, partout où elle se propage. […]

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts […]. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services. »

« En réalité, ceux qui, à Bruxelles et ailleurs, au nom des prétendues nécessités d’un prétendu progrès, au nom d’un libéralisme mal compris, et au nom de l’Europe, veulent ouvrir l’Union Européenne à tous les vents d’une économie mondialiste dépourvue de tout cadre institutionnel réellement approprié et dominée par la loi de la jungle, et la laisser désarmée sans aucune protection raisonnable ; ceux qui, par là même, sont d’ores et déjà personnellement et directement responsables d’innombrables misères et de la perte de leur emploi par des millions de chômeurs, ne sont en réalité que les défenseurs d’une idéologie abusivement simplificatrice et destructrice, les hérauts d’une gigantesque mystification. […]

Au nom d’un pseudo-libéralisme, et par la multiplication des déréglementations, s’est installée peu à peu une espèce de chienlit mondialiste laissez-fairiste. Mais c’est là oublier que l’économie de marché n’est qu’un instrument et qu’elle ne saurait être dissociée de son contexte institutionnel et politique et éthique. Il ne saurait être d’économie de marché efficace si elle ne prend pas place dans un cadre institutionnel et politique approprié, et une société libérale n’est pas et ne saurait être une société anarchique.

Cette domination se traduit par un incessant matraquage de l’opinion par certains médias financés par de puissants lobbies plus ou moins occultes. Il est pratiquement interdit de mettre en question la mondialisation des échanges comme cause du chômage.

Personne ne veut, ou ne peut, reconnaître cette évidence : si toutes les politiques mises en œuvre depuis trente ans ont échoué, c’est que l’on a constamment refusé de s’attaquer à la racine du mal, la libéralisation mondiale excessive des échanges. Les causes de nos difficultés sont très nombreuses et très complexes, mais une d’elles domine toutes les autres : la suppression progressive de la Préférence Communautaire à partir de 1974 par “l’Organisation de Bruxelles” à la suite de l’entrée de la Grande Bretagne dans l’Union Européenne en 1973.

La mondialisation de l’économie est certainement très profitable pour quelques groupes de privilégiés. Mais les intérêts de ces groupes ne sauraient s’identifier avec ceux de l’humanité tout entière. Une mondialisation précipitée et anarchique ne peut qu’engendrer partout instabilité, chômage, injustices, désordres, et misères de toutes sortes, et elle ne peut que se révéler finalement désavantageuse pour tous les peuples.»

« En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connaît qu’un seul critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Partout se manifeste une régression des valeurs morales, dont une expérience séculaire a montré l’inestimable et l’irremplaçable valeur. Le travail, le courage, l’honnêteté ne sont plus honorés. La réussite économique, fondée trop souvent sur des revenus indus, ne tend que trop à devenir le seul critère de la considération publique.

En engendrant des inégalités croissantes et la suprématie partout du culte de l’argent avec toutes ses implications, le développement d’une politique de libéralisation mondialiste anarchique a puissamment contribué à accélérer la désagrégation morale des sociétés occidentales. »

[Maurice Allais, extraits rédigés entre 1990 et 2009]

Maurice Allais« Cette doctrine [la « chienlit mondialiste laissez-fairiste »] a été littéralement imposée aux gouvernements américains successifs, puis au monde entier, par les multinationales américaines, et à leur suite par les multinationales dans toutes les parties du monde, qui en fait détiennent partout en raison de leur considérable pouvoir financier et par personnes interposées la plus grande partie du pouvoir politique. La mondialisation, on ne saurait trop le souligner, ne profite qu’aux multinationales. Elles en tirent d’énormes profits.

Cette évolution s’est accompagnée d’une multiplication de sociétés multinationales ayant chacune des centaines de filiales, échappant à tout contrôle, et elle ne dégénère que trop souvent dans le développement d’un capitalisme sauvage et malsain. […]

Cette ignorance [des ressorts véritables de la crise actuelle par les « experts » officiels] et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. » [Maurice Allais, 1998 et 2009]

 

L’analyse de Maurice Allais sur la création monétaire

 « En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex-nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. [...]

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXe et du XXe siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex-nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le “cancer” qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée. [...]

Que les bourses soient devenues de véritables casinos, où se jouent de gigantesques parties de poker, ne présenterait guère d’importance après tout, les uns gagnant ce que les autres perdent, si les fluctuations générales des cours n’engendraient pas, par leurs implications, de profondes vagues d’optimisme ou de pessimisme qui influent considérablement sur l’économie réelle. [...] Le système actuel est fondamentalement anti-économique et défavorable à un fonctionnement correct des économies. Il ne peut être avantageux que pour de très petites minorités. »

[Maurice Allais, La Crise mondiale d’aujourd’hui. Pour de profondes réformes des institutions financières et monétaires, 1998]

« Ce qui, pour l’essentiel, explique le développement de l’ère de prospérité générale, aux États-Unis et dans le monde, dans les années qui ont précédé le krach de 1929, c’est l’ignorance, une ignorance profonde de toutes les crises du XIXème siècle et de leur signification réelle. En fait, toutes les grandes crises des XIXème et XXème siècles ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation. Partout et à toute époque, les mêmes causes génèrent les mêmes effets et ce qui doit arriver arrive. » [Maurice Allais]


« Ce livre est dédié aux innombrables victimes dans le monde entier de l’idéologie libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée, et à tous ceux que n’aveugle pas quelque passion partisane. » [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


Le libéralisme contre le laissez-fairisme

« Les premiers libéraux ont commis une erreur fondamentale en soutenant que le régime de laisser-faire constituait un état économique optimum. » [Maurice Allais, Traité d’économie pure, 1943]

« Le libéralisme ne saurait se réduire au laissez-faire économique ; c’est avant tout une doctrine politique, et le libéralisme économique n’est qu’un moyen permettant à cette politique de s’appliquer efficacement dans le domaine économique. Originellement, d’ailleurs, il n’y avait aucune contradiction entre les aspirations du socialisme et celles du libéralisme.

La confusion actuelle du libéralisme et du laissez-fairisme constitue un des plus grands dangers de notre temps. Une société libérale et humaniste ne saurait s’identifier à une société laxiste, laissez-fairiste, pervertie, manipulée, ou aveugle.

La confusion du socialisme et du collectivisme est tout aussi funeste.

En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connait qu’un critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Les perversions du socialisme ont entrainé l’effondrement des sociétés de l’Est. Mais les perversions laissez-fairistes d’un prétendu libéralisme mènent à l’effondrement des sociétés occidentales. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Une proposition enseignée et admise sans discussion dans toutes les universités américaines et à leur suite dans toutes les universités du monde entier : “Le fonctionnement libre et spontané du marché conduit à une allocation optimale des ressources”.

C’est là le fondement de toute la doctrine libre-échangiste dont l’application aveugle et sans réserve à l’échelle mondiale n’a fait qu’engendrer partout désordres et misères de toutes sortes.

Or, cette proposition, admise sans discussion, est totalement erronée, et elle-ne fait que traduire une totale ignorance de la théorie économique chez tous ceux qui l’ont enseignée en la présentant comme une acquisition fondamentale et définitivement établie de la science économique.

Cette proposition repose essentiellement sur la confusion de deux concepts différents : le concept d’efficacité maximale de l’économie et le concept d’une répartition optimale des revenus.

En fait, il n’y a pas une situation d’efficacité maximale, mais une infinité de telles situations. La théorie économique permet de définir sans ambiguïté les conditions d’une efficacité maximale, c’est-à-dire d’une situation sur la frontière entre les situations possibles et les situations impossibles. Par contre et par elle-même, elle ne permet en aucune façon de définir parmi toutes les situations d’efficacité maximale celle qui doit être considérée comme préférable. Ce choix ne peut être effectué qu’en fonction de considérations éthiques et politiques relatives à la répartition des revenus et à l’organisation de la société.

De plus, il n’est même pas démontré qu’à partir d’une situation initiale donnée le fonctionnement libre des marchés puisse mener le monde à une situation d’efficacité maximale.
Jamais des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. » [Maurice Allais, Discours à l’UNESCO du 10 avril 1999]


La théorie contre les faits

« C’est toujours le phénomène concret qui décide si une théorie doit être acceptée ou repoussée. Il n’y a pas, et il ne peut y avoir d’autre critère de la vérité d’une théorie que son accord plus ou moins parfait avec les phénomènes observés. Trop d’experts n’ont que trop tendance à ne pas tenir compte des faits qui viennent contredire leurs convictions.

À chaque époque, les conceptions minoritaires n’ont cessées d’être combattues et rejetées par la puissance tyrannique des “vérités établies”. De tout temps, un fanatisme dogmatique et intolérant n’a cessé de s’opposer aux progrès de la science et à la révision des postulats correspondant aux théories admises et qui venaient les invalider. […] En fait, le consentement universel, et a fortiori celui de la majorité, ne peuvent jamais être considérés comme des critères de la vérité. En dernière analyse, la condition essentielle du progrès, c’est une soumission entière aux enseignements de l’expérience, seule source réelle de notre connaissance. […]

Tôt ou tard, les faits finissent par l’emporter sur les théories qui les nient. La science est en perpétuel devenir. Elle finit toujours par balayer les “vérités établies”.
Depuis les années 1970, un credo s’est peu à peu imposé : la mondialisation est inévitable et souhaitable ; elle seule peut nous apporter la prospérité et l’emploi.
Bien que très largement majoritaire, cette doctrine n’a cependant cessé d’être contredite par le développement d’un chômage persistant qu’aucune politique n’a pu réduire, faute d’un diagnostic correct.

N’en doutons pas, comme toutes les théories fausses du passé, cette doctrine finira par être balayée par les faits, car les faits sont têtus. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Si utiles et si compétents que puissent être les experts, si élaborés que puissent être leurs modèles, tous ceux qui les consultent doivent rester extrêmement prudents. Tout organisme qui emploie une équipe pour l’établissement de modèles prévisionnels ou décisionnels serait sans doute avisé d’en employer une autre pour en faire la critique, et naturellement de recruter cette équipe parmi ceux qui ne partagent pas tout-à-fait les convictions de la première. » [Maurice Allais, Conférence du 23/10/1967, « L’Économique en tant que Science »]

« Si les taux de change ne correspondent pas à l’équilibre des balances commerciales, le libre-échange ne peut être que nuisible et fondamentalement désavantageux pour tous les pays participants. » [Maurice Allais, Combats pour l'Europe, 1994]


Une application erronée d’une théorie correcte : la théorie des coûts comparés.

« La justification de la politique de libre-échange mondialisé de l’OMC se fonde dans ses principes sur la théorie des coûts comparés présentée par Ricardo en 1817. [NDR : elle explique que, dans un contexte de libre-échange, chaque pays, s’il se spécialise dans la production pour laquelle il dispose de la productivité la plus forte ou la moins faible, comparativement à ses partenaires, accroîtra sa richesse nationale. Ricardo donne l’exemple de l’avantage comparatif du vin pour le Portugal, et des draps pour l’Angleterre]

Mais ce modèle repose sur une hypothèse essentielle, à savoir que la structure des coûts comparatifs reste invariable au cours du temps. En fait, il n’en est ainsi que dans le cas des ressources naturelles. [...] Par contre, dans le domaine industriel, aucun avantage comparatif ne saurait être considéré comme permanent. Chaque pays aspire légitimement à rendre ses industries plus efficaces, et il est souhaitable qu’il puisse y réussir. Il résulte de là que la diminution ou la disparition de certaines activités dans un pays développé en raison des avantages comparatifs d’aujourd’hui pourront se révéler demain fondamentalement désavantageuses dès lors que ces avantages comparatifs disparaitront et qu’il faudra rétablir ces activités. Tel est le cas, par exemple aujourd’hui en France de la sidérurgie, du textile, de la construction navale. [...]

Même lorsqu’il existe des avantages comparatifs de caractère permanent, il peut être tout à fait contre-indiqué de laisser s’établir les spécialisations qui seraient entrainées par une politique généralisée de libre-échange. Ainsi dans le cas de l’agriculture, le libre-échange n’aurait d’autre effet que de faire disparaitre presque totalement l’agriculture de l’Union européenne [ce qui serait] de nature à compromettre son indépendance en matière alimentaire. [...]

Bien plus encore, la théorie simpliste et naïve du commerce international sur laquelle s’appuient les grands gourous du libre-échange mondialiste néglige complètement les coûts externes et les coûts de transition, et elle ne tient aucun compte des coûts psychologiques, très supérieurs aux coûts monétaires, subis par tous ceux que la libéralisation des échanges condamne au chômage et à la détresse. [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


« La concurrence est naturellement malfaisante. Elle devient bienfaisante lorsqu’elle s’exerce dans le cadre juridique qui la plie aux exigences de l’optimum du rendement social. » [Maurice Allais, 1943]

« Je suis convaincu qu’aucune société ne peut longtemps survivre si trop d’injustices sont tolérées. » [Maurice Allais, La lutte contre les inégalités, le projet d’un impôt sur les grosses fortunes et la réforme de la fiscalité, 1979]


« Notre société parait évoluer lentement, mais sûrement, vers une organisation de plus en plus rigide, vers certaines formes de corporatisme, comme celles qui les ont enserrées dans leurs carcans pendant tant de siècles, et que Turgot dénonçait à la veille de la Révolution française. Elle parait se diriger presque inéluctablement vers des systèmes antidémocratiques, tout simplement parce que l’incompréhension de la nature véritable d’un ordre libéral et l’ignorance rendent son fonctionnement impossible, parce que la démocratie, telle qu’elle parait entendue aujourd’hui, mène au désordre, et que des millions d’hommes, pénétrés d’idéologies irréalisables, ne pourront survivre que dans le cadre de régimes centralisés et autoritaires.

Nous visons des temps à de nombreux points semblables à ceux qui ont précédé ou accompagné la décadence de l’empire romain. […] Aujourd’hui comme alors, des féodalités ploutocratiques, politicocratiques et technocratiques s’emparent de l’État. […] Aujourd’hui comme alors, nous assistons indifférents et sans la comprendre, à une transformation profonde de la société qui, si elle se poursuit, entrainera inévitablement la fin de notre civilisation.

Le pessimisme que peut suggérer cette analyse ne conduit pas nécessairement à l’inaction : l’avenir dépend encore, pour une large part, de ce que nous ferons. Mais ceux qui sont réellement attachés à une société libre seront-ils assez lucides, seront-ils capables d’apercevoir les sources réelles de nos maux et les moyens d’y remédier, consentiront-ils à l’effort nécessaire, d’une ampleur tout à fait exceptionnelle, qui pourrait, peut-être, sauvegarder les conditions d’une société libre ?

Le passé ne nous offre que trop d’exemples de sociétés qui se sont effondrées pour n’avoir su ni concevoir, ni réaliser les conditions de leur survie. » [Maurice Allais, conclusion de L’impôt sur le capital et la réforme monétaire, 1977]

Maurice Allais 1943

Sa dernière interview

Extraits de la dernière interview de Maurice Allais, réalisée l’été 2010 par Lise Bourdeau-Lepage et Leïla Kebir pour Géographie, économie, société, 2010/2

L’origine de mon engagement est sans conteste la crise de 1929. [...] Étant sorti major de ma promotion, j’ai pu faire en sorte qu’une bourse d’étude universitaire soit attribuée à plusieurs élèves pour que nous effectuions un voyage d’étude sur place, à l’été 1933. Le spectacle sur place était saisissant. On ne pourrait se l’imaginer aujourd’hui. La misère et la mendicité était présentes partout dans les rues, dans des proportions incroyables. Mais ce qui fut le plus étonnant était l’espèce de stupeur qui avait gagné les esprits, une sorte d’incompréhension face aux évènements qui touchait non seulement l’homme de la rue mais aussi les universitaires, car notre programme de voyage comprenait des rencontres dans de grandes universités : tous nos interlocuteurs semblaient incapables de formuler une réponse. Ma vocation est venue de ce besoin d’apporter une explication, pour éviter à l’avenir la répétition de tels évènements. [...] Pour moi, ce qui compte avant tout dans l’économie et la société, c’est l’homme. [...]

Beaucoup de gens se sont mépris sur mon compte. Je me revendique d’inspiration à la fois libérale et sociale. Mais de nombreux observateurs ne voient qu’un seul de ces aspects, selon ce qu’ils ont envie de regarder. Par ailleurs, j’ai constamment cherché à lutter contre les idéologies dominantes, et mes combats ont évolué en fonction de l’évolution parallèle de ces dogmes successifs. Ceci explique en grande partie les incompréhensions car on n’observe alors que des bribes incomplètes. [...]

{Question : Vous soutenez par exemple, à propos de l’impôt, qu’il faudrait ne pas imposer le revenu du travail mais par contre taxer complètement l’héritage. Pouvez-vous expliquer cette position qui peut paraître très iconoclaste pour bon nombre d’économistes ?}

J’ai qualifié l’impôt sur le revenu de système anti-économique et anti-social, car il est assis sur le travail physique ou intellectuel, sur l’effort, sur le courage. Il est l’expression d’une forme d’iniquité. Baser la fiscalité sur les activités créatrices de richesse est un non sens, tandis que ce que j’ai nommé les revenus « non gagnés » sont pour leur part trop protégés : à savoir par exemple l’appropriation privée des rentes foncières, lorsque la valeur ou le revenu des terrains augmente sans que cette hausse ne résulte d’un quelconque mérite de son propriétaire, mais de décisions de la collectivité ou d’un accroissement de la population. [...]

Je crains que l’économie et la société aient eu durant ces dernières décennies une tendance régulière à oublier le rôle central de la morale, qui est une forme de philosophie de la vie en collectivité. [...]

J’ai depuis toujours, et surtout depuis plus de vingt ans, suggéré des modifications en profondeur des systèmes financiers et bancaires, ainsi que des règles du commerce international. Il faut réformer les banques, réformer le crédit, réformer le mode de création de la monnaie, réformer la bourse et son fonctionnement aberrant, réformer l’OMC et le FMI, car tout se tient. Leur organisation actuelle est directement à l’origine non
seulement de la crise, mais des précédentes, et des suivantes si l’ont n’agit pas. Mes propositions existent et il aurait suffi de s’y référer. Mais ce qui manque est la volonté. Les gouvernements n’écoutent que les conseillers qui sont trop proches des milieux financiers ou économiques en place. On ne cherche pas à s’adresser à des experts plus indépendants. [...]

Les mathématiques ont pris au fil du temps une place excessive, particulièrement dans leurs applications financières. Il ne faut pas imaginer que ceci a toujours existé. [...] Mais par la suite, des économistes ont détourné ces apports, qui sont devenus des instruments pour imposer une analyse, mais sans chercher à la confronter à la réalité. De même, l’utilisation de certains modèles a causé des torts importants à Wall Street. Je rappelle d’ailleurs avoir de longue date demandé une révision de ces comportements, et par exemple l’interdiction des programmes informatiques automatiques qui sont utilisés par les financiers pour spéculer en Bourse.

Liens

Un lien vers des extraits de sa vision sur “la mondialisation, le chômage et les impératifs de l’humanisme

Vous trouverez ici une synthèse de son excellent livre de 1998 La crise mondiale d’aujourd’hui, que je vous recommande particulièrement, pour comprendre la crise actuelle (épuisé, donc à voir d’occasion).

Vous trouverez ici une synthèse de son livre L’Europe en crise

Ici une interview dans La Jaune et la Rouge

Ici un lien vers son article de 2005 : Les effets destructeurs de la Mondialisation

Épilogue

Je signale enfin que la fille de Maurice Allais travaille actuellement (avec difficultés) à la création d’une fondation afin de perpétuer le savoir du grand Maurice Allais. Elle se bat aussi pour préserver sa très riche bibliothèque de plus de 12 000 livres…

Plus d’informations sur sa page Wikipedia et sur l’Association AIRAMA qui lui est consacrée.

Maurice Allais

The Disappearance of Public Intellectuals

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The Crisis of Education as a Public Good

The Disappearance of Public Intellectuals

by HENRY GIROUX
 

With the advent of Neoliberalism, we have witnessed the production and widespread adoption within many countries of what I want to call the politics of economic Darwinsim. As a theater of cruelty and mode of public pedagogy, economic Darwinism removes economics and markets from the discourse of social obligations and social costs.  The results are all around us ranging from ecological devastation and widespread economic impoverishment to the increasing incarceration of large segments of the population marginalized by race and class. Economics now drives politics, transforming citizens into consumers and compassion into an object of scorn.  The language of rabid individualism and harsh competition now replaces the notion of the public and all forms of solidarity not aligned with market values.  As public considerations and issues collapse into the morally vacant pit of private visions and narrow self-interests, the bridges between private and public life are dismantled making it almost impossible to determine how private troubles are connected to broader public issues. Long term investments are now replaced by short term profits while compassion and concern for others are viewed as a weakness.  As public visions fall into disrepair, the concept of the public good is eradicated in favor of Democratic public values are scorned because they subordinate market considerations to the common good.  Morality in this instance simply dissolves, as humans are stripped of any obligations to each other. How else to explain Mitt Romney’s gaffe caught on video in which he derided “47 percent of the people [who] will vote for the president no matter what”?[i] There was more at work here than what some have called a cynical political admission by Romney that some voting blocs do not matter.[ii]  Romney’s dismissive comments about those 47 percent of adult Americans who don’t pay federal income taxes for one reason or another, whom he described as “people who believe that they are victims, who believe the government has a responsibility to care for them, who believe that they are entitled to health care, to food, to housing, to you-name-it,”[iii] makes clear that the logic disposability is now a central feature of American politics.

As the language of privatization, deregulation, and commodification replaces the discourse of the  public good, all things public, including public schools, libraries, transportation systems, crucial infrastructures, and public services, are viewed either as a drain on the market or as a pathology.[iv]  The corrupting influence of money and concentrated power not only supports the mad violence of the defense industry, but turns politics itself into mode of sovereignty in which sovereignty now becomes  identical with policies that benefit the rich, corporations, and the defense industry.”[v]  Thomas Frank is on target when he argues that “Over the course of the past few decades, the power of concentrated money has subverted professions, destroyed small investors, wrecked the regulatory state, corrupted legislators en masse and repeatedly put the economy through he wringer. Now it has come for our democracy itself.”[vi]

Individual prosperity becomes the greatest of social achievements because it allegedly drives innovation and creates jobs. At the same time, massive disparities in income and wealth are celebrated as a justification for a survival of the fittest ethic and homage to a ruthless mode of unbridled individualism.  Vulnerable populations once protected by the social state are now considered a liability because they are viewed as either flawed consumers or present a threat to a right-wing Christian view of America as a white, protestant public sphere. The  elderly, young people, the unemployed, immigrants, and poor whites and minorities of color now constitute a form of human waste and are considered disposable, unworthy of sharing in the rights, benefits, and protections of a substantive democracy.  Clearly, this new politics of disposability and culture of cruelty represents more than an economic crisis, it is also speaks to a deeply rooted crisis of education, agency, and social responsibility.

Under such circumstances, to cite C. W. Mills, we are seeing the breakdown of democracy, the disappearance of critical intellectuals, and “the collapse of those public spheres which offer a sense of critical agency and social imagination.”[vii]  Since the 1970s, we have witnessed the forces of market fundamentalism strip education of its public values, critical content, and civic responsibilities as part of its broader goal of creating new subjects wedded to consumerism, risk-free relationships, and the destruction of the social state.  Tied largely to instrumental purposes and measurable paradigms, many institutions of higher education are now committed almost exclusively to economic goals, such as preparing students for the workforce. Universities have not only strayed from their democratic mission, they seem immune to the plight of students who have to face a harsh new world of high unemployment, the prospect of downward mobility, debilitating debt, and a future that mimics the failures of the past.   The question of what kind of education is needed for students to be informed and active citizens is rarely asked.[viii]

Within both higher education and the educational force of the broader cultural apparatus– with its networks of knowledge production in the old and new media– we are witnessing the emergence and dominance of a powerful and ruthless, if not destructive, market-driven notion of education, freedom, agency, and responsibility. Such modes of education do not foster a sense of organized responsibility central to a democracy. Instead, they foster what might be called a sense of organized irresponsibility–a practice that underlies the economic Darwinism and civic corruption at the heart of American and, to a lesser degree, Canadian politics.

The anti-democratic values that drive free market fundamentalism are embodied in policies now attempting to shape diverse levels of higher education all over the globe. The script has now become overly familiar and increasingly taken for granted, especially in the United States and increasingly in Canada.  Shaping the neoliberal framing of public and higher education is a corporate-based ideology that embraces standardizing the curriculum, top-to-down governing structures,  courses that promote entrepreneurial values, and the reduction of all levels of education to job training sites. For example, one university is offering a master’s degree to students who commit to starting a high-tech company while another allows career officers to teach capstone research seminars in the humanities. In one of these classes, the students were asked to “develop a 30-second commercial on their ‘personal brand.’”[ix]

Central to this neoliberal view of higher education is a market-driven paradigm that  wants to eliminate tenure,  turn the humanities into a job preparation service, and reduce most faculty to the status of part-time and temporary workers, if not simply a new subordinate class of disempowered educators.  The indentured service status of such faculty is put on full display as some colleges have resorted to using “temporary service agencies to do their formal hiring.”[x] Faculty in this view are regarded as simply another cheap army of reserve labor, a powerless group that  universities are eager to exploit in order to increase the bottom line while disregarding the needs and rights of academic laborers and the quality of education that students deserve.

giroux3.jpgThere is no talk in this view of higher education about shared governance between faculty and administrators, nor of educating students as critical citizens rather than potential employees of Wal-Mart.  There is no attempt to affirm faculty as scholars and public intellectuals who have both a measure of autonomy and power. Instead, faculty members are increasingly defined less as intellectuals than as technicians and grant writers. Students fare no better in this debased form of education and are treated either as consumers or as restless children in need of high-energy entertainment—as was made clear in the recent Penn State scandal. Nor is there any attempt to legitimate higher education as a fundamental sphere for creating the agents necessary for an aspiring democracy. This neoliberal corporatized model of higher education exhibits a deep disdain for critical ideals, public spheres, and practices that are not directly linked to market values, business culture, the economy, or the production of short term financial gains.   In fact, the commitment to democracy is beleaguered, viewed less as a crucial educational investment than as a distraction that gets in the way of connecting knowledge and pedagogy to the production of material and human capital.

Higher Education and the Crisis of Legitimacy

In the United States, many of the problems in higher education can be linked to low funding, the domination of universities by market mechanisms, the rise of for-profit colleges, the intrusion of the national security state, and the lack of faculty self-governance, all of which not only contradicts the culture and democratic value of higher education but also makes a mockery of the very meaning and mission of the university as a democratic public sphere.  Decreased financial support for higher education stands in sharp contrast to increased support for tax benefits for the rich, big banks, the Defense Budget, and mega corporations.  Rather than enlarge the moral imagination and critical capacities of students, too many universities are now wedded to producing would-be hedge fund managers, depoliticized students,  and creating modes of education that promote a “technically trained docility.”[xi]  Strapped for money and increasingly defined in the language of corporate culture, many universities are now “pulled or driven principally by vocational, [military], and economic considerations while increasingly removing academic knowledge production from democratic values and projects.”[xii]

College presidents are now called CEOs and speak largely in the discourse of Wall Street and corporate fund managers while at the same time moving without apology or shame between interlocking corporate and academic boards. Venture capitalists scour colleges and universities in search of big profits to be made through licensing agreements, the control of intellectual property rights, and investments in university spinoff companies. In this new Gilded Age of money and profit, academic subjects gain stature almost exclusively through their exchange value on the market. It gets worse as exemplified by one recent example. BB&T Corporation, a financial holdings company, gave a $1 million gift to Marshall University’s business school on the condition that Atlas Shrugged by Ayn Rand [Paul Ryan’s favorite book] be taught in a course.   What are we to make of the integrity of a university when it accepts a monetary gift from a corporation or rich patron demanding as part of the agreement the power to specify what is to be taught in a course or how a curriculum should be shaped?  Some corporations and universities now believe that what is taught in a course is not an academic decision but a market consideration.

Not only does neoliberalism undermine  both civic education and public values and confuse education with training,  it also treats knowledge as a product, promoting a neoliberal logic that views schools as malls, students as consumers, and faculty as entrepreneurs. It gets worse.  As Stanley Aronowitz points out, [t]he absurd neoliberal idea that users should pay for every public good from parks and beaches to highways  has reached education with a vengeance”[xiii] as more and more students are forced to give up attending college because of skyrocketing tuition rates.  In addition, thousands of students are now saddled with debts that will bankrupt their lives in the future. Unfortunately, one measure of this disinvestment in higher education as a public good can be seen in the fact that many states such as California are spending more on prisons than on higher education.[xiv]  Educating low income and poor minorities to be engaged citizens has been undermined by an unholy alliance of law and order conservatives, private prison corporations, and prison guard unions along with the rise of the punishing state, all of whom have an invested interest in locking more people up, especially poor minority youth, rather than educating them.  It is no coincidence that as the U.S., and Canada to a lesser degree, disinvests in the institutions fundamental to a democracy, it has invested heavily in the rise of the prison-industrial complex, and the punishing-surveillance state.  The social costs of prioritizing punishing over educating is clear in one shocking statistic provided by a recent study which states that  “by age 23, almost a third of Americans or 30.2 percent have been arrested for a crime…that researches say is a measure of growing exposure to the criminal justice system in everyday life.”[xv]

Questions regarding how education might enable students to develop a keen sense of prophetic justice, utilize critical analytical skills, and cultivate an ethical sensibility through which they learn to respect the rights of others are becoming increasingly irrelevant in a market-driven and militarized university.  As the humanities and liberal arts are downsized, privatized, and commodified, higher education finds itself caught in the paradox of claiming to invest in the future of young people while offering them few intellectual, civic, and moral supports.

If the commercialization, commodification, and militarization of the university continue unabated, higher education will become yet another one of a number of institutions incapable of fostering critical inquiry, public debate, human acts of justice, and public values. But the calculating logic of the corporate university does more than diminish the moral and political vision and practices necessary to sustain a vibrant democracy and an engaged notion of social agency. It also undermines the development of public spaces where matters of dissent, critical dialogue, social responsibility, and social justice are pedagogically valued– viewed as fundamental to providing students with the knowledge and skills necessary to address the problems facing the nation and the globe. Such democratic public spheres are especially important at a time when any space that produces “critical thinkers capable of putting existing institutions into question” is under siege by powerful economic and political interests.[xvi]

Higher education has a responsibility not only to search for the truth regardless of where it may lead, but also to educate students to make authority and power politically and morally accountable while at the same time sustaining “the idea and hope of a public culture.”[xvii]  Though questions regarding whether the university should serve strictly public rather than private interests no longer carry the weight of forceful criticism they did in the past, such questions are still crucial in addressing the purpose of higher education and what it might mean to imagine the university’s full participation in public life as the protector and promoter of democratic values.

What needs to be understood is that higher education may be one of the few public spheres left where knowledge, values, and learning offer a glimpse of the promise of education for nurturing public values, critical hope, and a substantive democracy.  It may be the case that everyday life is increasingly organized around market principles; but confusing a market-determined society with democracy hollows out the legacy of higher education, whose deepest roots are moral, not commercial. This is a particularly important insight in a society where the free circulation of ideas are not only being replaced by ideas managed by the dominant media, but where critical ideas are increasingly viewed or dismissed as banal, if not reactionary. Celebrity culture and the commodification of culture now constitute a powerful form of mass illiteracy and increasingly permeate all aspects the educational force of the wider cultural apparatus. But mass illiteracy does more than depoliticize the public, it also becomes complicit with the suppression of dissent.  Intellectuals who engage in dissent and “keep the idea and hope of a public culture alive,”[xviii] are often dismissed as irrelevant, extremist, or un-American. Moreover, anti-public intellectuals now dominate the larger cultural landscape, all too willing to flaunt co-option and reap the rewards of venting insults at their assigned opponents while being reduced to the status of paid servants of powerful economic interests.  At the same time, there are too few academics willing to defend higher education for its role in providing a supportive and sustainable culture in which a vibrant critical democracy can flourish.

These issues, in part, represent political and pedagogical concerns that should not be lost on either academics or those concerned about the purpose and meaning of higher education. Democracy places civic demands upon its citizens, and such demands point to the necessity of an education that is broad-based, critical, and supportive of meaningful civic values, participation in self-governance, and democratic leadership. Only through such a formative and critical educational culture can students learn how to become individual and social agents, rather than merely disengaged spectators,  able both to think otherwise and  to act upon civic commitments that “necessitate a reordering of basic power arrangements” fundamental to promoting the common good and producing a meaningful democracy.

Dreaming the Impossible

Reclaiming higher education as a democratic public sphere begins with the crucial project of challenging, among other things, those market fundamentalists, religious extremists, and rigid ideologues who harbor a deep disdain for critical thought and healthy skepticism, and who look with displeasure upon any form of education that teaches students to read the word and the world critically. The radical imagination in this discourse is viewed as dangerous and a dire threat to political authorities. One striking example of this view was expressed recently by former Senator Rick Santorum who argues that there is no room for intellectuals in the Republican Party. Needless to say, education is not only about issues of work and economics, but also about questions of justice, social freedom, and the capacity for democratic agency, action, and change, as well as the related issues of power, inclusion, and citizenship. These are educational and political issues, and they should be addressed as part of a broader effort to re-energize the global struggle for social justice and democracy.

If higher education is to characterize itself as a site of critical thinking, collective work, and public service, educators and students will have to redefine the knowledge, skills, research, and intellectual practices currently favored in the university. Central to such a challenge is the need to position intellectual practice “as part of an intricate web of morality, rigor and responsibility” that enables academics to speak with conviction, use the public sphere to address important social problems, and demonstrate alternative models for bridging the gap between higher education and the broader society.  Connective practices are key: it is crucial to develop intellectual practices that are collegial rather than competitive, refuse the instrumentality and privileged isolation of the academy, link critical thought to a profound impatience with the status quo, and connect human agency to the idea of social responsibility and the politics of possibility.

Connection also means being openly and deliberately critical and worldly in one’s intellectual work. Increasingly, as universities are shaped by a culture of fear in which dissent is equated with treason, the call to be objective and impartial, whatever one’s intentions, can easily echo what George Orwell called the official truth or the establishment point of view. Lacking a self-consciously democratic political focus, teachers are often reduced to the role of a technician  or functionary engaged in formalistic rituals, unconcerned with the disturbing and urgent problems that confront the larger society or the consequences of one’s pedagogical practices and research undertakings. In opposition to this model, with its claims to and conceit of political neutrality, I argue that academics should combine the mutually interdependent roles of critical educator and active citizen. This requires finding ways to connect the practice of classroom teaching with the operation of power in the larger society and to provide the conditions for students to view themselves as critical agents capable of making those who exercise authority and power answerable for their actions. Such an intellectual does not train students solely for jobs, but also educates them to question critically the institutions, policies, and values that  shape their lives, relationships to others, and myriad connections to the larger world.

I think Stuart Hall is on target here when he insists that educators also have a responsibility to provide students with “critical knowledge that has to be ahead of traditional knowledge: it has to be better than anything that traditional knowledge can produce, because only serious ideas are going to stand up.”[xix] At the same time, he insists on the need for educators to “actually engage, contest, and learn from the best that is locked up in other traditions,” especially those attached to traditional academic paradigms.[xx]  It is also important to remember that education as a utopian project is not simply about fostering critical consciousness but also about teaching students to take responsibility for one’s responsibilities, be they personal, political, or global. Students must be made aware of the ideological and structural forces that promote needless human suffering while also recognizing that it takes more than awareness to resolve them. This is the kind of intellectual practice that Zygmunt Bauman calls “taking responsibility for our responsibility,”[xxi] one that is attentive to the suffering and needs of others.

Education cannot be decoupled from what Jacques Derrida calls a democracy to come, that is, a democracy that must always “be open to the possibility of being contested, of contesting itself, of criticizing and indefinitely improving itself.”[xxii]  Within this project of possibility and impossibility, education must be understood as a deliberately informed and purposeful political and moral practice, as opposed to one that is either doctrinaire, instrumentalized, or both. Moreover, a critical pedagogy should be engaged at all levels of schooling. Similarly, it must gain part of its momentum in higher education among students who will go back to the schools, churches, synagogues, and workplaces in order to produce new ideas, concepts, and critical ways of understanding the world in which young people and adults live. This is a notion of intellectual practice and responsibility that refuses the insular, overly pragmatic, and privileged isolation of the academy.  It also affirms a broader vision of learning that links knowledge to the power of self-definition and to the capacities of students to expand the scope of democratic freedoms, particularly those that address the crisis of education, politics, and the social as part and parcel of the crisis of democracy itself.

In order for critical pedagogy, dialogue, and thought to have real effects,  they must advocate the message that all citizens, old and young, are equally entitled, if not equally empowered, to shape the society in which they live. This is a message we heard from the brave students fighting tuition hikes and the destruction of civil liberties and social provisions in Quebec and to a lesser degree in the Occupy Wall Street movement.  If educators are to function as public intellectuals, they need listen to young people all over the world who are insisting that the relationship between knowledge and power can be emancipatory, that their histories and experiences matter, and that what they say and do counts in their struggle to unlearn dominating privileges, productively reconstruct their relations with others, and transform, when necessary, the world around them. Simply put, educators need to argue for forms of pedagogy that close the gap between the university and everyday life. Their curricula need to be organized around knowledge of those communities, cultures, and traditions that give students a sense of history, identity, place, and possibility. More importantly, they need to join students in engaging in a practice of freedom that points to new and radical forms of pedagogies that have a direct link to building social movements in and out of the colleges and universities.

Although there are still a number of academics such as Noam Chomsky, Angela Davis, Stanley Aronowitz, Slavoj Zizek, Russell Jacoby, and Cornel West who function as public intellectuals, they are often shut out of the mainstream media or characterized as marginal, even subversive figures. At the same time, many academics find themselves laboring under horrendous working conditions that either don’t allow for them to write in an accessible manner for the public because they do not have time—given the often almost slave-like labor demanded of part-time academics and increasingly of full-time academics as well—or they retreat into a highly specialized, professional language that few people can understand in order to meet the institutional standards of academic excellence. In this instance, potentially significant theoretical rigor detaches itself both from any viable notion of accessibility and from the possibility of reaching a larger audience outside of their academic disciplines.

Consequently, such intellectuals often exist in hermetic academic bubbles cut off from both the larger public and the important issues that impact society. To no small degree, they have been complicit in the transformation of the university into an adjunct of corporate and military power. Such academics have become incapable of defending higher education as a vital public sphere and unwilling to challenge those spheres of induced mass cultural illiteracy and firewalls of jargon that doom critically engaged thought, complex ideas, and serious writing for the public to extinction. Without their intervention as public intellectuals, the university defaults on its role as a democratic public sphere capable of educating an informed public, a culture of questioning, and the development of a critical formative culture connected to the need, as Cornelius Castoriadis puts it, “to create citizens who are critical thinkers capable of putting existing institutions into question so that democracy again becomes society’s movement.”[xxiii]

Before his untimely death, Edward Said, himself an exemplary public intellectual, urged his colleagues in the academy to directly confront those social hardships that disfigure contemporary society and pose a serious threat to the promise of democracy.  He urged them to assume the role of public intellectuals, wakeful and mindful of their responsibilities to bear testimony to human suffering and the pedagogical possibilities at work in educating students to be autonomous, self-reflective, and socially responsible. Said rejected the notion of a market-driven pedagogy, one that created cheerful robots and legitimated organized recklessness and illegal legalities.  In opposition to such a pedagogy, Said argued for what he called a pedagogy of  wakefulness and its related concern with a politics of critical engagement. In commenting on Said’s public pedagogy of wakefulness, and how it shaped his important consideration of academics as public intellectuals, I begin with a passage that I think offers a key to the ethical and political force of much of his writing. This selection is taken from his memoir, Out of Place, which describes the last few months of his mother’s life in a New York hospital and the difficult time she had falling to sleep because of the cancer that was ravaging her body. Recalling this traumatic and pivotal life experience, Said’s meditation moves between the existential and the insurgent, between private pain and worldly commitment, between the seductions of a “solid self” and the reality of a contradictory, questioning, restless, and at times, uneasy sense of identity. He writes:

‘Help me to sleep, Edward,’ she once said to me with a piteous trembling in her voice that I can still hear as I write. But then the disease spread into her brain—and for the last six weeks she slept all the time—my own inability to sleep may be her last legacy to me, a counter to her struggle for sleep. For me sleep is something to be gotten over as quickly as possible. I can only go to bed very late, but I am literally up at dawn. Like her I don’t possess the secret of long sleep, though unlike her I have reached the point where I do not want it. For me, sleep is death, as is any diminishment in awareness. ..Sleeplessness for me is a cherished state to be desired at almost any cost; there is nothing for me as invigorating as immediately shedding the shadowy half-consciousness of a night’s loss than the early morning, reacquainting myself with or resuming what I might have lost completely a few hours earlier. I occasionally experience myself as a cluster of flowing currents. I prefer this to the idea of a solid self, the identity to which so many attach so much significance. These currents like the themes of one’s life, flow along during the waking hours, and at their best, they require no reconciling, no harmonizing. They are ‘off’ and may be out of place, but at least they are always in motion, in time, in place, in the form of all kinds of strange combinations moving about, not necessarily forward, sometimes against each other, contrapuntally yet without one central theme. A form of freedom, I like to think, even if I am far from being totally convinced that it is. That skepticism too is one of the themes I particularly want to hold on to. With so many dissonances in my life I have learned actually to prefer being not quite right and out of place.[xxiv]

It is this sense of being awake, displaced, caught in a combination of diverse circumstances that suggests a pedagogy that is cosmopolitan and imaginative–a public affirming pedagogy that demands a critical and engaged interaction with the world we live in mediated by a responsibility for challenging structures of domination and for alleviating human suffering.  As an ethical and political practice, a public pedagogy of wakefulness rejects modes of education removed from political or social concerns, divorced from history and matters of injury and injustice. Said’s notion of a pedagogy of wakefulness includes “lifting complex ideas into the public space,” recognizing human injury inside and outside of the academy, and using theory as a form of criticism to change things.[xxv] This is a pedagogy in which academics are neither afraid of controversy or the willingness to make connections that are otherwise hidden, nor are they afraid of making clear the connection between private issues and broader elements of society’s problems.

For Said, being awake becomes a central metaphor for defining the role of academics as public intellectuals, defending the university as a crucial public sphere, engaging how culture deploys power, and taking seriously the idea of human interdependence while at the same time always living on the border — one foot in and one foot out, an exile and an insider for whom home was always a form of homelessness. As a relentless border crosser, Said embraced the idea of the “traveler” as an important metaphor for engaged intellectuals. As Stephen Howe, referencing Said, points out, “It was an image which depended not on power, but on motion, on daring to go into different worlds, use different languages, and ‘understand a multiplicity of disguises, masks, and rhetorics. Travelers must suspend the claim of customary routine in order to live in new rhythms and rituals … the traveler crosses over, traverses territory, and abandons fixed positions all the time.’”[xxvi]  And as a border intellectual and traveler, Said embodied the notion of always “being quite not right,” evident by his principled critique of all forms of certainties and dogmas and his refusal to be silent in the face of human suffering at home and abroad.

Being awake meant refusing the now popular sport of academic bashing or embracing a crude call for action at the expense of rigorous intellectual and theoretical work. On the contrary, it meant combining rigor and clarity, on the one hand, and civic courage and political commitment, on the other. A pedagogy of wakefulness meant using theory as a resource, recognizing the worldly space of criticism as the democratic underpinning of publicness, defining critical literacy not merely as a competency, but as an act of interpretation linked to the possibility of intervention in the world. It pointed to a kind of border literacy in the plural in which people learned to read and write from multiple positions of agency; it also was indebted to the recognition forcibly stated by Hannah Arendt that “Without a politically guaranteed public realm, freedom lacks the worldly space to make its appearance.”[xxvii]

For public intellectuals such as Said, Chomsky, Bourdieu, Angela Davis, and others, intellectuals have a responsibility to unsettle power, trouble consensus, and challenge common sense.  The very notion of being an engaged public intellectual is neither foreign to nor a violation of what it means to be an academic scholar, but central to its very definition.  According to Said, academics have a duty to enter into the public sphere unafraid to take positions and generate controversy, functioning as moral witnesses, raising political awareness, making connections to those elements of power and politics often hidden from public view, and reminding “the audience of the moral questions that may be hidden in the clamor and din of the public debate.”[xxviii]  At the same time, Said criticized those academics who retreated into a new dogmatism of the disinterested specialist that separates them “not only from the public sphere but from other professionals who don’t use the same jargon.”[xxix] This was especially unsettling to him at a time when complex language and critical thought remain under assault in the larger society by all manner of anti-democratic forces.

g9781612050560.jpgThe view of higher education as a democratic public sphere committed to producing young people capable and willing to expand and deepen their sense of themselves, to think the “world” critically, “to imagine something other than their own well-being,” to serve the public good, and to struggle for a substantive democracy has been in a state of acute crisis for the last thirty years.[xxx]  When faculty assume, in this context, their civic responsibility to educate students to think critically, act with conviction, and connect what they learn in classrooms to important social issues in the larger society, they are often denounced for politicizing their classrooms and for violating professional codes of conduct, or, worse, labelled as unpatriotic.[xxxi] In some cases, the risk of connecting what they teach to the imperative to expand the capacities of students to be both critical and socially engaged may costs academics their jobs, especially when they make visible the workings of power, injustice, human misery, and the alterable nature of the social order. What do the liberal arts and humanities amount to if they do not teach the practice of freedom, especially at a time when training is substituted for education?  Gayatri Spivak provides a context for this question with her comment: “”Can one insist on the importance of training in the humanities in [a] time of legitimized violence?”[xxxii]

In a society that remains troublingly resistant to or incapable of questioning itself, one that celebrates the consumer over the citizen,  and  all too willingly endorses the narrow values and interests of corporate power, the importance of the  university as a place of critical learning, dialogue, and social justice advocacy becomes all the more imperative.  Moreover, the distinctive role that faculty play in this ongoing pedagogical project of democratization and learning, along with support for the institutional conditions and relations of power that make it possible, must be defended as part of a broader discourse of excellence, equity, and democracy.

Despite the growing public recognition that market fundamentalism has fostered a destructive alignment among the state, corporate capital, and transnational corporations, there is little understanding that such an alignment has been constructed and solidified through a neoliberal disciplinary apparatus and corporate pedagogy produced in part in the halls of higher education and through the educational force of the larger media culture.  The economic Darwinism of the last thirty years has done more than throw the financial and credit system into crisis; it has also waged an attack on all those social institutions that support critical modes of agency, reason, and meaningful dissent.  And yet, the financial meltdown most of the world is experiencing is rarely seen as part of an educational crisis in which the institutions of public and higher education have been conscripted into a war on democratic values. Such institutions have played a formidable, if not shameless role, in reproducing market-driven beliefs, social relations, identities, and modes of understanding that legitimate the institutional arrangements of cut-throat capitalism.  William Black calls such institutions purveyors of a “criminogenic environment”—one that promotes and legitimates market-driven practices that include fraud, deregulation, and other perverse practices.[xxxiii]  Black claims that the most extreme pedagogical expression of such an environment can be found in business schools, which he calls “fraud factories” for the elite.[xxxiv]

There seems to be an enormous disconnect between the economic conditions that led to the current financial meltdown and the current call to action by a generation of young people and adults who have been educated for the last several decades in the knowledge, values, and identities of a market-driven society.  Clearly, this generation will not solve this crisis if they do not connect it to the assault on an educational system that has been reduced to a lowly adjunct of corporate interests and the bidding of the warfare state.

Higher education represents one the most important sites over which the battle for democracy is being waged. It is the site where the promise of a better future emerges out of those visions and pedagogical practices that combine hope, agency, politics, and moral responsibility as part of a broader emancipatory discourse. Academics have a distinct and unique obligation, if not political and ethical responsibility, to make learning relevant to the imperatives of a discipline, scholarly method, or research specialization. But more  importantly, academics as engaged scholars can further the activation of knowledge, passion, values, and hope in the service of forms of agency that are crucial to sustaining a democracy in which higher education plays an important civic, critical, and pedagogical role.  If democracy is a way of life that demands a formative culture, educators can play a pivotal role in creating forms of pedagogy and research that enable young people to think critically, exercise judgment, engage in spirited debate, and create those public spaces that constitute “the very essence of political life.”[xxxv]

Finally, I want to suggest that while it has become more difficult to imagine a democratic future, we have entered a period in which young people all over the world are protesting against neoliberalism and its pedagogy and politics of disposability. Refusing to remain voiceless and powerless in determining their future, these young people are organizing collectively  in order  to create the conditions for societies that refuse to use politics as an act of war and markets as the measure of democracy. They are taking seriously the words of the great abolitionist Frederick Douglas who bravely argued that freedom is an empty abstraction if people fail to act, and “if there is no struggle, there is no progress.”

Their struggles are not simply aimed at the 1% but also the 99 percent as part of a broader effort to get them to connect the dots, educate themselves, and develop and join social movements that can rewrite the language of democracy and put into place the institutions and formative cultures that make it possible. Stanley Aronowitz is right in arguing that “The system survives on the eclipse of the radical imagination, the absence of a viable political opposition with roots in the general population, and the conformity of its intellectuals who, to a large extent, are subjugated by their secure berths in the academy. [At the same time,] it would be premature to predict that decades of retreat, defeat and silence can be reversed overnight without a commitment to what may be termed  ‘a long march’ though the institutions, the workplaces and the streets of the capitalist metropoles.”[xxxvi]

The current protests in the United States, Canada, Greece, and Spain make clear that this is not–indeed, cannot be–only a short-term project for reform, but a political movement that needs to intensify, accompanied by the reclaiming of public spaces, the progressive use of digital technologies, the development of public spheres,  the production of new modes of education, and the safeguarding of places where democratic expression, new identities, and collective hope can be nurtured and mobilized.  A formative culture must be put in place pedagogically and institutionally in a variety of spheres extending from churches and public and higher education to all those cultural apparatuses engaged in the production and circulation of knowledge, desire, identities, and values. Clearly, such efforts need to address the language of democratic revolution rather than the seductive incremental adjustments of liberal reform. This suggest not only calling for a living wage, jobs programs, especially for the young, the democratization of power, economic equality, and a massive shift in funds away from the machinery of war and big banks  but also a social movement that not only engages in critique but makes hope a real possibility by organizing to seize power.  There is no room for failure here because failure would cast us back into the clutches of authoritarianism–that while different from previous historical periods–shares nonetheless the imperative to proliferate violent social formations and a death-dealing blow to the promise of a democracy to come.

Given the urgency of the problems faced by those marginalized by class, race, age, and sexual orientation, I think it is all the more crucial to take seriously the challenge of Derrida’s provocation that “We must do and think the impossible. If only the possible happened, nothing more would happen. If I only I did what I can do, I wouldn’t do anything.”[xxxvii]  We may live in dark times as Hannah Arendt reminds us, but history is open and the space of the possible is larger than the one on display.

Henry A. Giroux holds the Global TV Network chair in English and Cultural Studies at McMaster University in Canada. His most recent books include: “Take Back Higher Education” (co-authored with Susan Searls Giroux, 2006), “The University in Chains: Confronting the Military-Industrial-Academic Complex” (2007) and “Against the Terror of Neoliberalism: Politics Beyond the Age of Greed” (2008). His latest book is Twilight of the Social: Resurgent Publics in the Age of Disposability,” (Paradigm.)


Notes.

[i] David Corn, “Secret Video: Romney Tells Millionaire Donors What He Really Thinks of Obama Voters,” Mother Jones (September 17, 2012). Online: http://www.motherjones.com/politics/2012/09/secret-video-romney-private-fundraiser

[ii] Naomi Wolf, “How the Mitt Romney Video Killed the American Dream,” The Guardian (September 21, 2012). Online: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/sep/21/mitt-romney-video-killed-american-dream?newsfeed=true

[iii] Corn, “Secret Video,” http://www.motherjones.com/politics/2012/09/secret-video-romney-private-fundraiser

[iv] George Lakoff and Glenn W. G Smith, “Romney, Ryan and the Devil’s Budget,” Reader Supported News, (August 22, 2012). Online:

http://blogs.berkeley.edu/2012/08/23/romney-ryan-and-the-devils-budget-will-america-keep-its-soul/

[v] João Biehl, Vita: Life in a Zone of Social Abandonment (Los Angeles: University of California Press, 2005). These zones are also brilliantly analyzed in Chris Hedges and Joe Sacco, Days of Destruction, Days of Revolt (New York: Knopf, 2012).

[vi] Thomas Frank, “It’s a rich man’s world: How billionaire backers pick America’s candidates,”

Harper’s Magazine (April 2012). Online: http://harpers.org/archive/2012/04/0083856

[vii]. C. Wright Mills, The Politics of Truth: Selected Writings of C. Wright Mills, (New York: Oxford University Press, 2008), p. 200.

[viii]. Stanley Aronowitz, “Against Schooling: Education and Social Class,” Against Schooling, (Boulder, CO: Paradigm Publishers, 2008), p. xii.

[ix]. Ibid, Kate Zernike, “Making College ‘Relevant’,” P. ED 16.

[x] Scott Jaschik, “Making Adjuncts Temps—Literally,” Inside Higher Ed (August 9, 2010). Online: http://www.insidehighered.com/news/2010/08/09/adjuncts

[xi] Martha C. Nussbaum, Not For Profit: Why Democracy Needs The Humanities, (New Jersey: Princeton University Press, 2010), p. 142.

[xii] Greig de Peuter, “Universities, Intellectuals, and Multitudes: An Interview with Stuart Hall”, in Mark Cote, Richard J. F. Day, and Greig de Peuter, eds.,Utopian Pedagogy: Radical Experiments against Neoliberal Globalization, (Toronto: University of Toronto Press, 2007), p. 111.

[xiii]. Ibid., Aronowitz, Against Schooling, p. xviii.

[xiv] Les Leopold, “Crazy Country: 6 Reasons America Spends More on Prisons Than On Higher Education,” Alternet, (August 27, 2012). Online

http://www.alternet.org/education/crazy-country-6-reasons-america-spends-more-prisons-higher-education?paging=off. On this issue, see also the classic work by Angela Davis: Are Prisons Obsolete? (New York: Open  Media, 2003) and Michelle Alexander, New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness (New York: New Press, 2012).

[xv] Erica Goode, “Many in U.S. Are Arrested by Age 23, Study Finds,” New York Times (December 19, 2011), p. A15.

[xvi]. Cornelius Castoriadis, “Democracy as Procedure and democracy as Regime,” Constellations 4:1 (1997), p. 5.

[xvii] George Scialabba, What Are Intellectuals Good For? (Boston: Pressed Wafer, 2009) p. 4.

17. Ibid. .

[xix]. Greig de Peuter, Universities, Intellectuals and Multitudes: An Interview with Stuart Hall,” in Mark Cote, Richard J. F. Day, and Greig de Peuter, eds.  Utopian Pedagogy: Radical Experiments Against Neoliberal Globalization (Toronto: University of Toronto Press, 2007), p. 113-114.

[xx]. De Peuter, Ibid. P. 117.

[xxi]. Cited in Madeline Bunting, “Passion and Pessimism,” The Guardian (April 5, 2003). Available online: http:/books.guardian.co.uk/print/0,3858,4640858,00.html.

[xxii]. Giovanna Borriadori, ed., “Autoimmunity: Real and Symbolic Suicides–A Dialogue with Jacques Derrida,” in Philosophy in a Time of Terror: Dialogues with Jurgen Habermas and Jacques Derrida (Chicago: University of Chicago Press, 2004). P. 121.

[xxiii]. Cornelius Castoriadis, “Democracy as Procedure and Democracy as Regime,” Constellations 4:1 (1997), p.  10.

[xxiv]. Edward Said, Out of Place: A Memoir  (New York: Vintage, 2000), pp. 294-299

[xxv]. Said, Out of Place, p. 7.

[xxvi]. Stephen Howe, “Edward Said: The Traveller and the Exile,” Open Democracy (October 2, 2003). Online at: www.opendemocracy.net/articles/ViewPopUpArticle.jsp?id=10&articleId=1561.

[xxvii]. Hannah Arendt, Between Past and Future: Eight Exercises in Political Thought (New York: Penguin, 1977), p. 149.

[xxviii]. Edward Said, “On Defiance and Taking Positions,” Reflections On Exile and Other Essays (Cambridge: Harvard University Press, 2001), p. 504.

[xxix]. Edward Said, Humanism and Democratic Criticism (New York: Columbia University Press, 2004), p. 70.

[xxx]. See, especially, Christopher Newfield, Unmaking the Public University: The Forty-Year Assault on the Middle Class (Cambridge: Harvard University Press, 2008).

[xxxi]. See Henry A. Giroux, “Academic Unfreedom in America: Rethinking the University as a Democratic Public Sphere,” in Edward J. Carvalho, ed.,  “Academic Freedom and Intellectual Activism in the Post-9/11 University,” special issue of Work and Days 51–54 (2008–2009), pp. 45–72. This may be the best collection yet published on intellectual activism and academic freedom.

[xxxii] Gayatri Chakravorty Spivak, “Changing Reflexes: Interview with Gayatri Chakravorty Spivak,” Works and Days, 55/56: Vol. 28, 2010, p. 8.

[xxxiii]. Bill Moyers, “Interview with William K. Black,” Bill Moyers Journal (April 23, 2010).

Online at:  http://www.pbs.org/moyers/journal/04232010/transcript4.html

[xxxiv]. Moyers, “Interview with William K. Black.”

[xxxv]. See, especially, H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, 3rd edition, revised (New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1968); and J. Dewey, Liberalism and Social Action [orig. 1935] (New York: Prometheus Press, 1999).

35.  Ibid, Aronowitz, “The Winter of Our Discontent,” p. 68.

[xxxvii]  Jacques Derrida, “No One is Innocent: A Discussion with Jacques About Philosophy in the Face of Terror,” The Information Technology, War and Peace Project, p. 2 available online: http://www.watsoninstitute.org/infopeace/911/derrida_innocence.html

lundi, 15 octobre 2012

L’Atlantisme est un totalitarisme

L’Atlantisme est un totalitarisme

par Guillaume de ROUVILLE

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

L’Atlantisme est l’idéologie dominante des sociétés européennes actuelles, celle qui aura sans doute le plus d’influence sur le devenir de nos destinées communes et pourtant elle est de ces idéologies presque cachées dont on ne parle ouvertement que dans le cercle restreint du monde alternatif. Sont Atlantistes tous les collaborateurs européens de la vision hégémonique des États-Unis et de son idéologie propre qui répond au doux nom d’impérialisme. Autrement dit, l’Atlantisme est l’idéologie des exécutants serviles de l’idéologie impériale américaine ; elle lui est subordonnée et ne tire de sa soumission que les miettes de l’empire tombées à terre après le festin des empereurs.

C’est une idéologie mineure dans l’idéologie majeure. Elle est à la fois  honteuse et conquérante : honteuse parce qu’elle ne joue jamais que les seconds rôles ; conquérante, parce qu’elle emprunte à son maître d’outre-atlantique ses visions hégémoniques délirantes et toutes ses caractéristiques totalitaires. C’est un totalitarisme dans le totalitarisme, une domination de dominés, un impérialisme de serfs et d’esclaves passés maîtres dans l’art de se soumettre. Parler de l’Atlantisme européen c’est parler du projet impérial américain et réciproquement. La seule chose qui les distingue est leur place dans la hiérarchie totalitaire : le premier n’est que l’émanation du second, ne se définit que par lui, se contente de l’imiter et lui obéit en tout ; il n’est, en revanche, son égal en rien.

Chaque continent a ses collaborateurs au service de l’impérialisme américain, chaque zone d’influence de ce dernier a son atlantisme à lui. Nous aurions pu ainsi nous contenter d’évoquer les caractéristiques totalitaires de l’impérialisme américain pour comprendre l’Atlantisme. Mais, la position de subordination que les Européens ont adopté par rapport à leur modèle nord américain est le résultat d’un choix de nos élites auquel nous devons nous confronter directement, plutôt que de rejeter toute forme de responsabilité sur l’oligarchie américaine. Prenons notre part de responsabilité, voyons-nous tels que nous sommes, accomplissons un travail d’introspection nécessaire avant de relever la tête et de retrouver notre dignité. Car, avant de pouvoir se rebeller contre ses maîtres, il faut se percevoir comme esclave et reconnaître la part de consentement et de lâcheté qu’il y a dans cette situation.

D’un totalitarisme l’autre

Les caractéristiques de cette idéologie sont nombreuses et ne revêtent pas toutes la même importance, mais elles dessinent très clairement une idéologie totalitaire ayant ses spécificités propres qui ne se retrouvent pas nécessairement telles quelles dans les totalitarisme érigés en momies d’observation comme le stalinisme ou le nazisme. Il ne nous semble pas utile, en effet, de comparer l’Atlantisme à d’autres totalitarismes passés de mode, car on peut être un totalitarisme à part entière sans partager toutes les caractéristiques de ses modèles les plus achevés, modèles qui appartiennent à une autre époque.

Il y a plusieurs degrés dans le totalitarisme atlantiste ; comme il y a plusieurs manières de le subir. Selon que l’on est un peuple d’Afrique ou du Moyen Orient ou un citoyen allemand ou français appartenant à la classe des favorisés, on ne vit pas de la même manière le totalitarisme atlantiste. S’il est globalement meurtrier, il peut être localement bénéfique pour une minorité. Autrement dit,le totalitarisme atlantiste est à géométrie variable (c’est son caractère ambigu) : tantôt impitoyable et brutal avec les uns, il peut être plus tranquille et pourvoyeur de certains bienfaits pour ceux qui le respectent et courbent l’échine devant sa puissance. Il n’en est pas moins présent partout et ne tolère guère la contestation quand cette dernière revêt un caractère menaçant pour son emprise.

Car, si vous pouvez contester ses caractéristiques mineures et jouir, pour se faire, de la plus totale liberté, vous ne serez pas autorisé à vous attaquer, dans la force des faits[1], à ses fondamentaux : (1) le libéralisme financier et la puissance des banques, (2) la domination du dollar dans les échanges internationaux, (3) les guerres de conquête du complexe militaro-industriel – pour, notamment, l’accaparement des ressources naturelles des pays périphérique à ses valeurs - ; (4) l’hégémonisme total des États-Unis (dans les domaines militaire, économique, culturel) de qui il reçoit ses directives et sa raison d’être ; (5) l’alliance indéfectible avec l’Arabie saoudite (principal État terroriste islamique au monde) ; (6) le soutien sans faille au sionisme.

L’Atlantisme, c’est, en effet, un totalitarisme qui définit une liberté encadrée, bornée aux éléments qui ne la remettent pas en cause ; une liberté sans conséquence ; une liberté sans portée contestataire ; une liberté consumériste et libidinale ; une liberté impuissante. C’est une liberté qui nous adresse ce message : « Esclave, fais ce que tu veux, pour autant que tu me baises les pieds et que tu travailles pour moi ».

Il convient, pour juger du caractère totalitaire ou non de l’Atlantisme, de le prendre en bloc et de voir s’il opprime, s’il tue en masse, à un endroit quelconque de cette planète. Il nous importe peu qu’il puisse être tolérable pour des populations entières (les élites occidentales et leurs protégés), s’il doit se rendre terrible et impitoyable pour le reste de l’humanité, sa mansuétude à l’égard de certains ne le rendant pas meilleur ou moins criminel. Ainsi, son ambiguïté est le résultat de la perception que nous pouvons en avoir lorsque nous nous plaçons dans la peau de l’homme blanc Occidental. Car, si nous essayons un instant de nous mettre à la place des Irakiens, des Libyens, des Syriens (parmi tant d’autres), son essence perd son ambiguïté et se révèle pour ce qu’elle est : une puissance criminelle qui pervertit l’humanité et les valeurs démocratiques.*

Portrait du totalitarisme par lui-même

Voyons, à présent, à grands traits et pour nous donner quelques repères, les principales caractéristiques qui nous permettent de dire que l’Atlantisme est bel et bien un totalitarisme.

1. L’Atlantisme est un impérialisme 

“What should that role be? Benevolent global hegemony. Having defeated the « evil empire, » the United States enjoys strategic and ideological predominance. The first objective of U.S. foreign policy should be to preserve and enhance that predominance by strengthening America’s security, supporting its friends, advancing its interests, and standing up for its principles around the world”. Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy, de William Kristol et Robert Kagan, Foreign Affairs, juillet/aout 1996.

C’est une idéologie qui sert un État militarisé (les États-Unis[2]) qui a recours (a) à la terreur - guerres préventives, enlèvement, déportations dans des camps de torture, assassinats extrajudiciaires quotidiens, etc.- (b) à la peur – menace terroriste instrumentalisée auprès de ses populations et (c) aux menaces – de rétorsions économiques contre les États récalcitrants, de guerres tous azimuts, de coups d’États – pour imposer sur la surface du globe sa vision ultra-libérale et pour s’accaparer, par la force létale, les ressources naturelles dont elle pense avoir besoin pour sa domination.

C’est une idéologie au service d’une vision hégémonique de la puissance américaine. Cette dernière revendique son caractère hégémonique : (i) dans le domaine militaire, à travers les think tanks néoconservateurs comme le Project for a New American Century (et sa volonté affichée d’empêcher l’émergence d’une puissance capable de rivaliser avec celle des États-Unis) ou l’American Entreprise Institute et, enfin, à travers sa doctrine militaire officielle intitulée Full Spectrum Dominance ; (ii) dans le domaine économique et financier avec, entre autre, l’imposition du dollar comme monnaie d’échange international ; (iii) dans le domaine culturel, par la mise en place d’un programme de corruption des élites occidentales et internationales à travers, notamment, l’opération Mockingbird[3] dans les années 50 et le National Endowment for Democracy aujourd’hui.

L’Atlantisme, adhère, sans piper mot et comme un bon soldat, à cette projection planétaire d’un ego qui n’est pas le sien. Sans l’Atlantisme la vision hégémonique des États-Unis ne pourrait pas avoir le caractère global qu’elle a aujourd’hui. L’Atlantisme participe pleinement à l’ensemble des crimes commis au nom de cet ego démesuré, soit directement, soit en les justifiant ou en les transfigurant en ‘actions humanitaires’ auprès de ses peuples.

2. L’Atlantisme est un terrorisme 

“À la fin de la guerre froide, une série d’enquêtes judiciaires menées sur de mystérieux actes de terrorisme commis en France contraignit le Premier ministre italien Giulio Andreotti à confirmer l’existence d’une armée secrète en France ainsi que dans d’autres pays d’Europe occidentale membres de l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN). Coordonnée par la section des opérations militaires clandestines de l’OTAN, cette armée secrète avait été mise sur pied par l’Agence centrale de renseignement américaine (CIA) et par les services secrets britanniques (MI6 ou SIS) au lendemain de la seconde guerre mondiale afin de lutter contre le communisme en Europe de l’Ouest.[…] Si l’on en croit les sources secondaires aujourd’hui disponibles, les armées secrètes se sont retrouvées impliquées dans toute une série d’actions terroristes et de violations des droits de l’Homme pour lesquelles elles ont accusé les partis de gauche afin de les discréditer aux yeux des électeurs. Ces opérations, qui visaient à répandre un climat de peur parmi les populations, incluaient des attentats à la bombe dans des trains ou sur des marchés (en France), l’usage systématique de la torture sur les opposants au régime (en Turquie), le soutien aux tentatives de coups d’État de l’extrême droite (en Grèce et en Turquie) et le passage à tabac de groupes d’opposants.” Les Armées secrètes de l’OTAN, Daniele Ganser, Éditions Demi- Lune, page 24.

Des attentats des années de plomb en Italie au conflit en Afghanistan, de la guerre du Kosovo à l’agression contre la Libye et de la déstabilisation de la Syrie à la préparation d’une attaque contre l’Iran[4], le terrorisme est l’un des moyens privilégiés par l’Atlantisme pour l’accomplissement de ses objectifs.

Pour s’imposer à l’Europe de l’après-guerre, l’Atlantisme n’a pas hésité à utiliser la méthode terroriste des attentats sous faux drapeaux : en Italie, par exemple, pour décrédibiliser les forces de gauche les Atlantistes ont posé des bombes, dans les années 60 (attentat de la piazza Fontana à Florence), 70 et 80 (attentat de la gare de Bologne) dans des lieux publics avec l’intention de tuer des innocents. Avec ses relais médiatiques adéquats l’Atlantisme a pu faire passer ces meurtres pour l’œuvre de groupuscules d’extrême gauche et justifier, ainsi, la mise à l’écart de la pensée progressive dans ces pays et assurer le triomphe de leur idéologie.

Aujourd’hui, pour déstabiliser les pays qui contestent l’un de ses six piliers, il instrumentalise à grande échelle, sous l’impulsion des États-Unis, le terrorisme islamique (principalement wahhabito-salafiste) avec l’aide de ses alliés que sont l’Arabie saoudite et le Qatar : en l’a vu à l’œuvre, notamment, en Serbie, en Tchétchénie, en Libye et en Syrie. Il utilise le même levier pour créer des poches de terrorisme qui lui permettent (i) de s’enrichir en vendant des armes et des conseils dans le cadre de la guerre contre le terrorisme, (ii) d’étendre le nombre de ses interventions et bases militaires (celles de l’Otan ou seulement des États-Unis, selon les situations) là où il y voit un intérêt géostratégique et (iii) de donner de la substance à la théorie du choc des civilisations, ce qui lui permet d’obtenir de ses populations l’approbation de ses politiques conquérantes.

Le terrorisme est, plus généralement, au cœur de la doctrine et des stratégies militaires des démocraties occidentales et tout particulièrement de celles des États-Unis (Shock and Awe doctrine) qui les mettent en œuvre, notamment, par l’entremise de l’OTAN (pour plus de détails sur ce sujet, nous renvoyons à un article précédent : Dommages Collatéraux : la face cachée d’un terrorisme d’État).

On le voit bien ici, l’Atlantisme n’est jamais que l’exécutant docile, mais consentant, de l’impérialisme américain à qui il emprunte tous les concepts (guerre contre le terrorisme, choc des civilisations) et les stratégies (instrumentalisation du terrorisme islamique). Quand il le faut (pour gérer son opinion publique interne), l’impérialisme américain laisse aux Atlantistes européens jouer les premiers rôle, mais en apparence seulement, comme en Libye où Nicolas Sarkozy et David Cameron ont rivalisé d’initiatives pour se mettre en avant, alors même que toutes les opérations militaires étaient dirigées, en réalité, par l’armée américaine.

3. L’Atlantisme est un racisme 

“Cette logique du ‘Musulman coupable par nature’, parce que Musulman, est à la base de l’institutionnalisation de la torture par les États-Unis qui peuvent ainsi soumettre à des traitements inhumains des milliers de personnes à travers le monde (Guantanamo n’étant que l’un de ces camps de torture dirigés par l’administration américaine) sur la base d’un simple soupçon de ‘terrorisme’, soupçon qui ne fait l’objet d’aucun contrôle judiciaire. La culpabilité d’un Musulman n’a pas besoin d’être prouvée, elle se déduit de son être même. Il s’agit là d’une forme d’essentialisme, qui est lui-même une forme radicale de racisme”. L’esprit du temps ou l’islamophobie radicale.

Pour justifier sa guerre contre le terrorisme et le choc des civilisations l’Atlantisme stigmatise l’Islam et essentialise le Musulman sous des traits peu flatteurs : le Musulman serait par nature un ennemi des Occidentaux, voire du genre humain, des valeurs démocratiques et de la paix. Une fois essentialisé, il est plus facile d’aller le tuer ; les populations occidentales ne voyant dans les souffrances des Musulmans que les justes châtiments dus à des peuples racailles.

L’islamophobie, le nationalisme pro-occidental et le sionisme – qui est une forme de racisme et d’ethnicisme – sont au cœur de la matrice idéologique atlantiste. Le plus étonnant, sans doute, et le plus inquiétant, est que ces éléments là sont partagés par les élites (et pour partie par les peuples occidentaux) par-delà les clivages politiques droite-gauche. On peut venir à l’islamophobie radicale par des voix opposées : le défenseur de la laïcité y viendra au nom de sa haine des religions, le social-démocrate bobo au nom du féminisme ou de la défense de l’homosexualité ; le conservateur au nom de la protection de ses racines menacées ; le sioniste au nom du droit d’un peuple élu à son espace vital, même si cela doit passer par le nettoyage ethnique d’un autre peuple, etc.

4. L’Atlantisme est un anti-humanisme 

“Depuis 2001, l’Europe a failli à défendre les droits de l’homme sur son propre sol, et s’est rendue complice de graves violations du Droit international au nom de la « guerre au terrorisme ». Des citoyens européens ou étrangers ont été enlevés par les services secrets américains sur le sol européen en dehors de toute disposition légale – ce sont les « extraordinary renditions » – et ont été emmenés dans des prisons secrètes de la CIA dont certaines sont situées dans un pays européen”. ReOpen911.info

Il s’appuie sur le dogme de l’infaillibilité démocratique qui veut que les Occidentaux ne puissent mal agir ni commettre de crimes de masse puisqu’ils représenteraient des sociétés démocratiques ouvertes. Ils sont donc libres de bombarder civils et cibles économiques, d’assassiner des citoyens à travers le monde, de déstabiliser des régimes qui ne leur plaisent pas et, en se faisant, ils ne feront jamais qu’exercer leur droit du meilleur, autre appellation, plus aristocratique, du droit du plus fort. L’autre n’est pas le semblable ou le frère humain ; l’autre c’est l’adversaire, l’ennemi, un être non civilisé, à peine un être. On peut allègrement nier son humanité et le traiter comme une variable géopolitique.

Vaincre ne lui suffit pas, il lui faut déshumaniser, torturer, humilier, violer, dégrader, détruire. Les Atlantistes ont collaboré militairement, économiquement, diplomatiquement, médiatiquement à tous les projets inhumains des États-Unis :  pour s’en tenir à des exemples récents, on pourra citer le camp de torture de Guantanamo (devenu depuis camp d’entraînement de djihadistes au service de l’empire), Abu Ghraib en Irak et l’humiliation des prisonniers, la mort filmée de Kadhafi, les exécutions sommaires (par drones notamment), les enlèvements réalisés par la CIA sur le sol européen (extraordinary rendition) et les dommages collatéraux en Afghanistan, etc.

Dans un autre ordre d’idée, on peut également dire que l’Atlantisme est une aliénation consumériste : l’homme n’est pas sacré ; on peut le tuer pour accomplir des objectifs économiques ou géostratégiques. Cette désacralisation de l’homme qui se fait au profit de la marchandise (dont les marques sont, elles, intouchables) est par essence mortifère. Le profit est plus puissant que l’humanité : en ce qui concerne la France, on pourra évoquer les exemples du scandale du sang contaminé et du Mediator du groupe Servier.

 

Hollande et Jules Ferry

Ce n’est pas un hasard si François Hollande a choisi Jules Ferry comme saint-patron laïque de sa présidence normale. Jules Ferry représente exactement l’idéal atlantiste : l’homme qui est capable d’utiliser la démocratie pour servir les banques et le colonialisme tout en donnant le change au peuple avec quelques concessions sociétales de gauche. Il ne portera jamais atteinte aux piliers de la puissance bancaire et aux capitalistes-colons. Il est conquérant pour les puissants, raciste et a une bonne conscience à toute épreuve malgré les crimes de ses amis partis coloniser les rivages lointains.

 

5. L’Atlantisme est un néo-colonialisme

Si le bras armé de l’Atlantisme est l’Otan, son bras économique est constitué du binome FMI-Banque Mondiale. Ces deux institutions (aux mains des États-Unis et des Européens) ont, pour maintenir les pays en voie de développement dans la dépendance des Occidentaux, utilisé les 3 leviers principaux suivants[5] : (i) l’endettement des États et des peuples[6], (ii) la privatisation de leurs économies et des fonctions régaliennes de l’État au profit des grandes entreprises occidentales (les fameux plans d’ajustement structurels) et (iii) l’ouverture forcée de leurs économies au libre échange et à la concurrence mondiale (alors même qu’ils n’y sont pas préparés et se trouvent vis-à-vis des Occidentaux dans une situation certaine de vulnérabilité).

L’Atlantisme commet des crimes économiques de masse en connaissance de cause pour le profit de quelques élus : en se faisant il démontre son allégeance aux principes de l’ultra-libéralisme prôné par la première puissance mondiale qui subordonne les valeurs humaines au fondamentalisme de marché.*

Pour parvenir à s’imposer l’Atlantisme a besoin (i) de subvertir les souverainetés des nations européennes et (ii) de maîtriser les opinions publiques de ces nations. Il lui faut contourner, affaiblir ou pervertir toutes les composantes démocratiques des sociétés de notre continent pour pouvoir triompher des insoumissions, des doutes, des contestations auxquels il pourrait faire face. Autrement dit, l’Atlantisme s’attaque directement et en profondeur aux fondements de la démocratie des peuples d’Europe à qui il est demandé de suivre aveuglément une idéologie cachée (parce qu’elle est honteuse), innommée (parce qu’elle est innommable) et qui les dépouille de leur souveraineté et de leur libre arbitre. 

L’Atlantisme subvertit les souverainetés nationales 

Sans parler du nombre incalculable de gouvernements démocratiquement élus renversés par les États-Unis avec l’aide directe ou l’approbation tacite de leurs alliés Atlantistes depuis 1945 à travers le monde, et pour se limiter à l’Europe, on peut signaler les cas de la Grèce et de la construction européenne.

En Grèce, aux lendemains de la seconde guerre mondiale, les Britanniques et les États-Unis appuient des mouvements d’extrême droite et d’anciens collaborateurs des Nazis afin d’empêcher la prise de pouvoir légale par les mouvements démocratiques progressistes. Les puissances occidentales atlantistes incitent à la guerre civile qui se solde par la victoire de leurs protégés et par près de 200 000 morts.  Après une évolution démocratique vers la fin des années 60, les Américains, avec l’aide des puissances européennes et grâce à leurs réseaux atlantistes, installent au pouvoir, en 1967, une junte militaire qui proclame le règne de l’ordre moral[7] et la fin de l’ouverture démocratique.

La construction européenne menée par Jean Monnet est avant tout un projet atlantiste. Il y avait bien d’autres manières de conduire la réalisation d’une Europe plus unie. L’Atlantisme a fait le choix de l’impuissance européenne pour ne pas contrarier les ambitions hégémoniques des États-Unis. L’Atlantisme a réduit la souveraineté européenne et mis au pas tous les mouvements indépendants, gaullistes, souverainistes, communistes, qu’ils fussent de gauche ou de droite. Il a imposé ses dirigeants à tous les niveaux de la bureaucratie européenne et à la tête des principaux États de l’Europe qui ont imposé des traités inégaux mêmes lorsque ceux-ci ont été rejetés par les peuples (comme en 2005 avec le Traité constitutionnel).

L’Atlantisme européen a réduit à néant, par étapes successives, l’ensemble des axes de souveraineté dont disposaient les États-nations d’Europe (et donc l’espace démocratique des peuples européens).

Il s’est ainsi attaqué à la souveraineté (i) électorale – le principal organe de décisions est non élu : la Commission ; les traités rejetés par les peuples sont néanmoins imposés ; par la mise à l’écart systématique de la démocratie directe au profit de la démocratie représentative – (ii) monétaire – une banque centrale indépendante des peuples ou de leurs élus qui ne prête pas directement aux États membres qui doivent se financer à des taux plus élevés sur les marchés financiers-, (iii) budgétaire – par l’imposition de la règle d’or et le contrôle des budgets nationaux par une commission composée de technocrates non élus – et (iv) militaire – intégration de l’ensemble des pays européens dans l’Otan.

Le dernier axe de souveraineté auquel l’Atlantisme se soit attaqué est celui de la souveraineté militaire française, la France ayant résisté plus longtemps que les autres nations européennes au rouleau compresseur de l’Atlantisme (ce fut la parenthèse gaulliste). Aujourd’hui les Atlantistes proposent la fusion entre le français EADS et l’anglais BAE afin de retirer à la France le contrôle complet de sa chaîne industrielle d’armement. Demain, ils mettront à mal la dissuasion nucléaire française en s’aidant du prétexte écologique anti-nucléaire.

En France, la mise au pas des non-atlantistes s’est achevée sous la présidence Sarkozy. La diplomatie (avec à sa tête Bernard Kouchner), l’armée, les médias (grâce aux efforts de Christine Ockrent) ont été presque entièrement débarrassés de leurs composantes non altantistes. Hollande, en bon chien de garde de l’Atlantisme, parachèvera l’entreprise.

 

La French-American Foundation et les Atlantico-Boys

La French American Foundation est une organisation à but non lucratif qui se consacre depuis 1976 a dénicher en France les hommes et femmes d’influence qui sont susceptibles de porter les couleurs de l’Atlantisme. 

Quelques anciens Young Leaders de la French American Foundation qui nous gouvernent en ce moment : François Hollande (1996), Arnaud Montebourg (2000), Pierre Moscovici (1996). Dans l’opposition, le plus en vue est Jean-Francois Copé.

Une liste non exhaustive des Atlantico-Boys en France (autres que ceux déjà mentionnés) et de leurs relais : Alain Finkielkraut, André Glucksmann, Bernard Kouchner, Bernard-Henri Lévy, Alexandre Adler, Caroline Fourest, Frédéric Encel, Philippe Val, Francois Heisbourg, Mohamed Sifaoui, Jean-Claude Casanova, Pierre Rosanvallon, Alain Minc, Jean Daniel, Pierre-André Taguieff ; la revue Commentaire, la Fondation Saint Simon (dissoute en 1999), le Cercle de l’Oratoire, l’Institut Turgot, l’Atlantis Institute, les revues Le Meilleur des MondesLa Règle du JeuLe Nouvel ObservateurLe MondeLibération, etc.

 

L’Atlantisme est un contrôle et une manipulation des foules

“The conscious and intelligent manipulation of the organized habits and opinions of the masses is an important element in democratic society. Those who manipulate this unseen mechanism of society constitute an invisible government which is the true ruling power of our country”. Propaganda, par Edward Bernays, 1928. 

“L’Atlantisme a pris naissance au départ de la guerre froide. Dans les années 50, un vaste programme nommé Opération Mockingbird, aujourd’hui bien documenté, a été mis en place par la CIA pour infiltrer les médias nationaux et étrangers, et influencer leurs contenus afin que ces derniers se montrent favorables aux intérêts américains. La méthodologie consistait à placer des rapports rédigés à partir de renseignements fournis par la CIA auprès de journalistes conscients ou inconscients de cette manœuvre. Ces informations étaient ensuite relayées par ces journalistes et par les agences de presse.” ; 11-Septembre : de la misère journalistique à la logique de collabos, de Lalo Vespera, ReOpen911.info

Sans la collaboration des médias, il ne serait possible à l’Atlantisme d’imposer ses fondamentaux dans l’esprit de l’opinion publique. Les médias font partie intégrante de la machine de guerre atlantiste. Pour créer le consentement et l’unanimisme dans une société ouverte il convient de maîtriser la production de l’information. Pour cela il est nécessaire de mettre à la tête des principaux médias des serviteurs zélés de l’Atlantisme. En France, dans le secteur privé des médias, seuls quelques grands groupes industriels appartenant à la nébuleuse oligarchique sont aux commandes (des vendeurs d’armes et des industriels qui vivent en partie grâce aux commandes de l’État) : il est naturel chez eux de servir les intérêts du plus fort (la période de la collaboration avec les Nazis est là pour nous le rappeler[8]). Dans le secteur public, le Président de la République ou ses fondés de pouvoirs choisissent leurs courroies de transmission humaines qui insuffleront l’esprit de soumission dans les rouages de la machine à désinformer.

Les pourvoyeurs de l’information commettent des crimes médiatiques lorsqu’ils se font les relais pur et simple de la propagande atlantiste, comme nous l’avons vu lors de la guerre contre la Serbie, de l’invasion de l’Afghanistan et du bombardement de la Libye par l’Otan, de la guerre en Irak, de la déstabilisation de la Syrie (toujours par l’Otan) ou comme nous le constatons à propos du nettoyage ethnique continu dont sont victimes les Palestiniens. Dans chacun de ces cas, les médias cautionnent les explications officielles, leur donnent force et crédibilité, mettent en avant des intentions humanitaires, alors même qu’elles recouvrent des crimes qui devraient soulever notre indignation et aboutir à la mise en cause judiciaire et politique de leurs principaux responsables.

Le tabou créé autour du 11-Septembre est symptomatique de la manière dont s’échafaude l’unanimisme dans une société où la liberté d’expression et la diversité des points de vue sont sensées régner. On démonise les questionneurs, on pourchasse les têtes brûlées, on les rend responsables des pires crimes du siècle dernier, on les ridiculise. On plante dans l’opinion publique des barrières psychologiques infranchissables (à travers, notamment, les accusations d’antisémitisme, de négationnisme et de révisionnisme) pour que la conscience citoyenne n’aille pas voir ce qu’il y a derrière ; on érige des murs dans les esprits pour enfermer leur consentement dans le champ des possibles atlantistes.

Il y a une forme d’intolérance radicale face à la pensée alternative maintenue enfermée dans le Web. Cette intolérance est radicale en ce sens qu’elle stigmatise les déviants et tente d’en faire des parias à mettre au ban de la société et qu’elle parvient à fermer presque totalement l’accès aux grands médias qui comptent à la pensée dissidente lorsqu’il s’agit d’évoquer et de discuter les fondamentaux de l’Atlantisme.

 

La psyché des Européens au service de l’Atlantisme

« Les Européens ne se sont toujours pas libérés psychologiquement de l’état de dépendance dans lequel ils se sont laissé prendre au sortir de la seconde guerre mondiale. Sous le prétexte que les États-Unis sont venus libérer les Européens il y a plus de 60 ans, il faudrait aujourd’hui que ces derniers abandonnent toute volonté d’indépendance, toute aspiration à choisir un modèle de développement alternatif. Il n’y a aucune logique dans une telle attitude. Faudrait-il que les États-Unis soient éternellement soumis à la France au prétexte que c’est grâce aux armes, aux finances et, en définitive, à la flotte de Louis XVI[9] que les Américains ont pu obtenir leur indépendance de l’Angleterre ? Que les Européens soient reconnaissants pour l’implication des États-Unis dans les deux Guerres Mondiales, cela est normal et bienheureux. Comme il est normal, également, que les Américains soient reconnaissant à l’égard de la France pour le soutien que ce pays leur a apporté à un moment décisif de leur histoire[10]. Mais la reconnaissance ne doit pas déboucher sur la dépendance et la vassalité. Est-il sain que les élites européennes se laissent maintenir dans cette dépendance ou ne cherchent tout simplement pas à la contrer ? Le simple respect de soi-même devrait suffire pour que chacun refuse de se considérer comme le sujet d’une autre personne. Accepter de se soumettre est une attitude morale et psychologique pernicieuse et humiliante. Il y a, en effet, une certaine humiliation à se laisser ainsi dicter son mode de vie et à aller chercher en permanence ses références culturelles, politiques, économiques outre-atlantique sans véritablement questionner leurs valeurs et leurs bienfaits. », La Démocratie ambiguë.*

Conclure pour en finir

Il ne s’agit là que d’un florilège de caractéristiques atlantistes fort incomplet, mais dont les principaux traits nous semblent dresser, à eux seuls, le portrait d’un totalitarisme contemporain non moins dangereux et effrayant que ses prédécesseurs. Qu’il s’invente un ennemi réel ou imaginaire, ou un ennemi qui devient réel à force d’être imaginé (et souhaité), on ne peut excuser les crimes de l’Atlantisme sous le prétexte fallacieux que son alter ego dans le mal (l’islamisme radical) en commettrait également ou que son modèle (le totalitarisme impérial de son maître) lui intimerait l’ordre de les perpétrer. L’Atlantisme a besoin du crime de l’autre pour commettre le sien en toute impunité et avec bonne conscience.

Au bout de sa logique, il y a la mort des autres, la guerre généralisée, la misère du plus grand nombre. L’Atlantisme est bel et bien une idéologie génocidaire, au même titre que l’impérialisme américain. Caractérisation exagérée qui décrédibilise celui qui l’utilise diront certains ? Galvaudage d’un crime qu’on ne peut évoquer à la légère diront d’autres ? Posons-nous alors cette simple question :combien de morts et de souffrances à son crédit (comme auteur ou complice) ? La réponse de l’historien est sans détour : des millions de victimes depuis la fin de la seconde guerre mondiale ; des millions depuis la chute du mur de Berlin[11] et un long fleuve d’ombres, de sang et de souffrances qui ne cessent de couler sur tous les continents.

La lutte contre l’Atlantisme est la grande aventure humaine de ce début de siècle pour nous autres Européens. À chacun d’y prendre part selon ses moyens et ses autres croyances. Que l’on croit au ciel ou que l’on n’y croit pas, que l’on soit misérable ou fortuné, d’ici ou d’ailleurs, chacun peut jouer sa partition dans le combat contre la fatalité de l’Atlantisme qui traînera avec elle, si cela est nécessaire à son triomphe, les cadavres de la démocratie et de la paix jusqu’aux charniers du capitalisme. Le combat contre l’Atlantisme est un humanisme.

Guillaume de Rouville


[1] Les paroles des minorités alternatives sont rarement des faits au sens ou ceux-ci pourraient changer le cours des choses.

[2] Les États-Unis ont un budget militaire annuel équivalent à celui des autres pays combinés.

[3] Voir infra.

[4] En septembre 2012, les États-Unis ont retiré de leur liste des entités considérées comme terroristes l’organisation dissidente iranienne Moudjahidin-e Khalk (MEK) qui perpétue régulièrement des attentats sur le sol iranien.

[5] L’Europe tente, notamment, d’imposer cela à travers ces Accords de Partenariat Économique.

[6] Pour les peuples, par le développement incontrôlé de la microfinance.

[7] À ce sujet voir le film de Costa Gavras : Z.

[8]  Voir : “Le Choix de la Défaite”, d’Annie Lacroix-Riz, Éditions Armand Colin, 2010.

[9] C’est grâce à l’appui décisif de la flotte française, dirigée par le Comte de Rochambeau, que les États-Unis remporteront la bataille de Yorktown en 1781, tournant majeur de la Guerre d’Indépendance.

[10] Lors de la Guerre d’Indépendance des États-Unis contre la Grande-Bretagne, entre 1775 et 1783.

[11] À titre d’exemples : le génocide des indigènes au Guatemala après le coup d’État de 1954 ; l’embargo sur l’Irak qui tua des centaines de milliers d’enfants sur une période de 10 ans ; le dépeçage du Congo depuis plus de 15 ans avec l’aide des grands groupes occidentaux qui a, jusqu’à présent, coûté la vie à près de 4 millions de civils).

mercredi, 10 octobre 2012

A Concepção Sagrada dos Espaços

A Concepção Sagrada dos Espaços

por Orazio M. Gnerre

Ex: http://legio-victrix.blogspot.be/ 



Texto da palestra de Orazio Gnerre, do Instituto Millenium, no IIIº Encontro Nacional Evoliano em João Pessoa.

Boa noite à todos,

Com a permissão do público e do professor Dugin, começarei.

Nós definimos o tema que escolhemos para a nossa discussão, "a concepção do espaço sagrado." Como você bem sabe, a escola de pensamento do tradicionalismo integrante baseia-se sobre um determinado assunto: os conceitos polares opostos subjacentes à abordagem dialética da realidade humana são dois simetricamente opostos - Tradição e Modernidade. Por Tradição compreendemos de modo geral a abordagem do "sagrado" ao real, uma leitura simbólica da mesma que, trabalhando com o que Carl Schmitt chamou de "catolicismo romano e forma política" princípio da representação, consideraremos o plano como um reflexo do mundo imanente transcendente, como expresso sistematicamente pela filosofia platônica. É um erro, porém definir o conservadorismo como um ramo da filosofia derivada do idealismo platônico porque, em sua visão ortodoxa, é considerada a ciência que estuda a manifestação do Uno pré-existente imanente - uma revelação eterna - e as estradas a fim de acessar sua experiência direta. A abordagem tradicional também pode ser definida cosmologicamente. A modernidade é a ruptura drástica com a concepção de existência simbólica e espiritual: a chave para o que não é mais cosmológico, como é na concepção tradicional, e sim mecânico. Se o pensamento tradicional é generalizante, representante, universalizante e essencialmente metafísico, o pensamento moderno, como seu oposto radical, manifesta-se como fragmentado, mecanicista e potencialmente niilista. Digo "basicamente" niilista porque, no desenrolar do fenômeno moderno, não esgota as possibilidades (ou pelo menos, não tivemos a oportunidade de conhecer este evento), mas aprofunda-se, expandindo sua influência e aumentando o grau de entropia que contém, provando ser o tempo da grande confusão prevista por René Guénon. Mais do que um sociólogo, incluindo Jedlowsky, advertiu-nos o fato de que a suposta pós-modernidade não é outra coisa senão o fenômeno moderno que é o apenas aparentemente negar a si mesmo, ele se quebra e se expande, criando uma nuvem de "modernidade diversas", e, aparentemente contrário ao contrário, de fato, todos os participantes do mesmo projeto e relativista perspectivista que, em aparente oposição ao primeiro evento universalista e racionalista da modernidade, na verdade, partes da natureza e cartesiana subjetivista. O professor Dugin, em seu discurso na conferência internacional de Moscou "Contra o mundo pós-moderno", tem bem definida a pós-modernidade como a queda da modernidade, então a expansão, a hipertrofia do princípio da quantidade que caracteriza a própria modernidade. Também o professor Dugin tem repetidamente salientou a necessidade de uma restauração da categoria filosófica do objetivismo, em oposição à natureza subjetivista da modernidade: na verdade ele não é o único que viu no universalismo marxista e no objetivismo (assim como na derrubada da manifestação idealista tripartite do Espírito) a continuação de categorias clássicas e tradicionais de pensamento. Cito neste caso o filósofo italiano Costanzo Preve que, em conjunto com Domenico Losurdo, representam a aresta de corte efectivo da Europa neomarxista. 

 

Se, como já dissemos, Tradição e Modernidade se opõem totalmente (e não dialeticamente), aqui é que ambos se projetam de cada fenômeno, porque, na verdade, são duas chaves reais para a leitura totalizante. É evidente, portanto, que deve haver um "sagrado" (tradicional e religioso) e "profano" (moderno e niilista), mesmo com o conceito de espaço, a importância de lugares, a interpretação providencial de áreas geográficas. O principal trabalho a que deve ser feita referência quando se trata desta diferença de abordagem é "O sagrado e o profano", texto esclarecedor do historiador romeno de religiões, famoso por ser ligado ao movimento da Legião do Miguel Arcanjo, professor, então, University, em Chicago, Mircea Eliade. Em seu texto explicativo, ele salienta as diferenças irreprimíveis que existem entre um homem religioso e secular, entre um homem e um homem da tradição da modernidade, na consideração do tempo, da vida, e lugares. Especialmente este último tema é que nos interessa em particular.

 

 

Eliade parte de um pressuposto geral, que é a base da consideração do fator espaço do homem religioso, o homem da Tradição: o mundo não é real. Neste sentido, a única coisa que o homem tradicional via como real, no entanto, era o Sagrado. A objetividade hegemônica do sagrado era aquele pelo qual o homem pudesse fazer o mundo real. O homem tradicional foi o vencedor real do mundo, o verdadeiro governante dos elementos (como ele era, interiorizados no pentagrama, que milênios mais tarde tornou-se o símbolo do Império Soviético sacral), como o filho dos deuses. O antropocentrismo tradicional, longe de ser semelhante ao do Iluminismo, ao contrário do último reconheceu a primazia do sagrado, como a única verdade incontestável. Como para os seres humanos, também criados devem ser realizados, "tornar-se o que você é", afirmando que o neoplatônico Santo Agostinho chamou "o poder" - estar no poder. E ele foi o homem, na verdade, o "Subcreator" (nas palavras de John Ronald Reuel Tolkien) que consagrou lugares, fez-se sagrado, tornando o domínio do Ser brilhante, e participando da criação de Deus também na concepção agostiniana, na verdade, a única coisa que se possa imaginar está sendo a adesão (que é a revelação do Santo), onde o mal é profundo como forte é a sua separação. Mesmo hoje, arar a terra perpetuamente consagrada ao Divino de nossos pais, cujos espíritos, anjos e santos padroeiros intercedem porque não afundam no abismo da não-existência. A perene conquista do Mundo do homem tradicional, então passou através da socialização do próprio mundo. O desenvolvimento desta verdade metafísica foi implementada após a revelação de Cristo, no ideal de evangelização ou Jihad. Útil a este respeito é lembrar que, para o homem tradicional, sendo o mundo espiritual mais importante e mais "real" do que o material, a primeira batalha era travada arduamente para conquistar a nível interno, uma luta até a morte pelo assassinato de seu Ego: esse foi o simbolismo de que também tratava o Barão Julius Evola, a que esta reunião é dedicada, a Grande Guerra Santa (para São Bernardo de Claraval, um dos grandes mestres do monasticismo ocidental, que são inspirados pelos cistercienses e trapistas) ou o Grande Jihad (o profeta Maomé). A corrida espacial foi qualitativamente inferior à horizontal para vertical, a conquista de seu microcosmo, a sua transferência sobre o domínio de si mesmo do indivíduo: a sacralização de si mesmo. Como o Buda disse: ". Entre aquele que vence na batalha mil vezes mil inimigos, e apenas aquele que vence a si mesmo, este é o melhor dos vencedores de cada batalha" . Qualitativamente inferior, mas não menos importante, a conquista horizontal, que Eliade identifica com o landname da tradição germânica, foi o processo pelo qual o homem subtraíu lugares no domínio da água, sem forma, do escuro, para render-se ao domínio da forma, da terra, e da luz. Igualmente Eliade considerava que estes dois princípios arquetípicos existem não apenas no plano horizontal, mas também sobre o eixo vertical. O nível horizontal é expresso pelo conceito axis mundi, o eixo do mundo, o centro radical da realidade. É importante que o eixo do mundo é único para si mesmo, ou localizado em um lugar (poderia realmente existir ...) que pode ser verdadeiramente chamado de centro de todo o mundo. No Mundo da Tradição tudo é relativo e tudo é absoluto, porque é o completo domínio do símbolo. É no templo que o homem tradicional no centro de seu mundo, que é o templo axis mundi. Não poderia ser de outra forma, para todos aqueles que vivem na orientação ao Sagrado: O templo é o seu ponto de referência, como um lugar de encontro entre a terra e os céus. Mas o templo, sendo o eixo do mundo, não só tem o valor de Scala Coeli, a Escada aos Céus: ele também ligou o homem à polaridade oposta, o mundo do informe, as águas primordiais. Esta é a ambivalência simbólica entre os pináculos das igrejas e suas criptas. O templo é de forma que, ao mesmo tempo, permite que você suba ao céu e retenha a água. É uma função mística e exorcista.

É interessante ver que todos estes arquétipos tradicionais nós podemos encontrar também em um pensador substancialmente “laico”, embora pessoalmente muito religioso. Falamos do já mencionado católico alemão Carl Schmitt, uma das mentes mais agudas do século passado, a quem o estudo do direito e mesmo da geopolítica devem muito. Ele abordou o problema espacial/territorial em duas obras suas, que lembramos serem “O Nomos da Terra” e “Terra e Mar”, este último escrito na forma de conto. Ele identificava duas fases da história da Civilização, que chamava respectivamente terrestre e marítima, e que nós podemos associar facilmente ao Mundo da Tradição e o da Modernidade. Segundo Schmitt estas duas concepções não estão ligadas somente a limites históricos, mas também a vínculos territoriais. Este é o motivo pelo qual a concepção terrestre está estritamente ligada ao bloco continental europeu e asiático, enquanto a marítima remete à Grande Ilha, a anglosfera que define o bloco anglo-americano. A primeira concepção, a terrestre, é ligada substancialmente aos princípios tradicionais do Sagrado (que em sentido político, se transpõem na comunidade orgânica, na hierarquia, na legitimidade, e no domínio da Forma e da Política), a segunda ao invés prova ser a manifestação do profano (nas suas expressões sociais de individualismo, igualitarismo, no domínio do informe e na ausência da norma). É aqui que se demonstra claramente o quanto a contraposição da Terra consagrada e da Água está presente também no pensamento de Schmitt. Não é casual que a manifestação da modernidade ocorra gradualmente, por meio da descoberta progressiva do novo mundo. Este é um argumento que tem sido aprofundado, partindo da geografia sagrada, pelo professor Dugin, e disso falaremos mais tarde. A Norma se demonstra em Schmitt com a legítima apropriação do território por parte de uma comunidade humana, que acaba sendo precisamente a consagração da mesma: é aqui que retorna o conceito já citado de landname. O landname é válido, porém somente na estabilidade: é a estabilidade que garante a legitimidade da norma (pelo mesmo motivo pelo qual o não se ater ao ordenamento jurídico pré-existente durante uma revolução política não é considerado ilegítimo). É assim que o landname só possui sentido na perspectiva terrestre. Um dos personagens pelos quaiso pensador alemão foi mais influenciados foi o nobre espanhol Donoso Cortés, herdeiro do que foi o último baluarte contra o avanço do poder marítimo anglo-saxão, a Santa Espanha Católica. Cortés, diplomata europeu de imenso calibre, homem político sem igual e agudo pensador, conhecia bem a realidade das revoluções igualitárias de 1848 e os ambientes da Restauração, considerando que entreteve também uma correspondência com o chanceler Metternich. Nele, feroz opositor da deriva anárquica europeia, Schmitt vê o defensor por excelência da Norma, da Lei. Como Schmitt, também Cortés também estava a procura daqueles que poderiam deter o avanço do anticristo, o processo de decadência total, o kat-echon, um papel que na tradição russa é preenchido pelo Imperador, e ele o identificou (com ou sem razão) em Napoleão III. O próprio Cortés define a Inglaterra como “a Grande Meretriz” (ou seja, Babilônia), que, como é sabido, na simbologia apocalíptica indica a mãe do Anticristo. Schmitt destaca várias vezes, em “Terra e Mar”, a natureza genealógica que liga o Império Britânico aos Estados Unidos da América. A conexão resulta então muito simples, em pleno acordo com todos os movimentos de resistência à Nova Ordem Mundial, que veem nos EUA “o Grande Satã”. Na Itália há dois livros dedicados ao ensinamento antimundialista que se pode tirar do Barão Evola, um de Carlo Terracciano, conhecido e amigo do Professor Dugin, e o outro de Pietro Carini. A lição de Cortés, entre outras coisas, está ligada profundamente à obra majestosa do primeiro opositor da Revolução Francesa (etapa central do processo subversivo na Europa), Joseph de Maistre, embaixador da Savóia junto ao czar. Ele e seu irmão Xavier se comprometeram firmemente ao lado da Rússia na luta contra o jacobinismo, um no sentido político, o outro no sentido militar.

 

 

Na abordagem sacra ao estudo dos espaços, não é possível deixar de recordar o papel desempenhado pelo presente professor Aleksandr Dugin, uma importante mente de nosso século, que abarca da geopolítica à filosofia, da sociologia à metafísica. Ele, como bem explica em muitos dos seus textos, está profundamente empenhado em difundir através de suas obras o elo estreito e direto que existe entre a geopolítica e a geografia sagrada, partindo especialmente das teorias do geopolítico alemão Karl Haushofer, que, sob a guarda do alpinista e estrategista britânico Mackinder, teorizava a integração política e militar do bloco continental europeu e asiático (que ele chamou de Heartland – Coração da Terra), contra a integração igual e oposta da World-Island (a Ilha-Mundo anglo-americana). Não definindo com o termo guenoniano de “ciência sagrada” a geopolítica, o professor Dugin a enquadra no âmbito daquelas pseudo-ciências que, por não terem sido completamente racionalizadas, e preservando ainda um alto nível de generalizações, manteve vivos, ainda que inconscientemente, aqueles arquétipos tradicionais dos quais estamos tratando. Em seu texto “Da Geografia Sagrada à Geopolítica”, cujas teses confluíram sucessivamente no “Paradigma do Fim”, o professor indaga antes de tudo o significado simbólico dos pontos cardeais na contraposição geopolítica “leste-oeste” e sociológica “norte-sul”. Leste e Oeste, na dialética geopolítica do mundo bipolar, constituía claramente o binômio da contraposição mundial da guerra Fria, bem como dois modelos diferentes de abordagem da vida. Se de um lado o Leste representava a “geométrica ordem prussiana” socialista, o Oeste simbolizava ao contrário o modelo hedonista do capitalismo desenfreado. Com a queda da contraposição dos blocos, e a transição pouco estável ao mundo unipolar, essa diferença não tem sido aplacada, de fato, ela foi radicalizada. Se bem que aparentemente também o Leste do mundo tem sido influenciado pelos dogmas modernos do progresso e do crescimento econômico exponencial, não podemos deixar de notar como nele estão ressurgindo (acima de tudo graças à parcial independência geopolítica de que pode desfrutar) os modelos culturais fundamentais para uma restauração integral. A oposição Leste-Oeste, no pensamento duginiano, se revela como a manifestação da contraposição do Oriente e do Ocidente metafísicos, ou melhor, simbólicos: a eterna ambivalência do apolíneo nascer do Sol e de sua descida nas Águas ocidentais. Os termos do desafio entre os dois pólos se tornam a Ascensão e a Queda, o Nascimento e a Morte, Criação e Dissolução. Em vários textos o professor se ocupou também do significado simbólico do centro geográfico que animam este desafio titânico dos continentes. Em dois de seus trabalhos, publicados na Itália no volume “Continente Rússia”, editado em 1991, ele diz limpidamente como, em uma perspectiva sacral e simbólica, a Sibéria – centro do Continente – coincide em realidade com a Hiperbórea, e a América do Norte se corresponde ao invés com a mitológica Ilha dos Mortos, a “terra verde”, da mitologia egípcia, a segunda Atlântida, o local das práticas obscenas de cultos orgiásticos. A segunda contraposição polar se identifica ao invés com Norte e Sul que, em uma concepção profana de sublevação, representam a parte rica e a pobre do globo, Primeiro e Terceiro Mundo. Nós todos conhecemos o simbolismo que na vasta literatura tradicional permeia os Pólos, especialmente o Norte. O Norte, ponto superior do Eixo do Mundo, nada mais é que o ápice solar. O Norte representa a superabundância de riqueza espiritual, o estágio último da Ascese. O Sul (de um ponto de vista simbólico e não meramente geográfico representa o contrário. A mentalidade profana, que em tudo opera a derrubada satânica dos significados, imanentizando esta contraposição em um sentido puramente geográfico, a preencheu com o significado de riqueza e pobreza materiais. Na concepção tradicional o nórdico é aquele que retorna ao gelo, aquele que perde o elemento passional e egoístico “demasiado humano” e que transcende a dimensão humana pela heroica. Já o racismo branco anglo-saxão ou pan-germanista, levado ao ápice político pelo Império Britânico em sua escana colonial global, e pelo hitlerismo ideológico ao nível europeu, demonstrava os elementos fundamentais dessa inversão demoníaca, ainda que preservando, no segundo caso, alguns elementos simbólicos da Tradição. O próprio Barão Evola escreveu muito sobre a necessidade de formar e criar uma raça do espírito, uma elite de aristocratas do espírito. O neopaganismo hitlerista, ao qual o orientalista, historiador das religiões e ex-tenente da SS italiana Pio Filippani Ronconi deu a alcunha de “contra-iniciático”, transpôs tudo a um plano biológico, invertendo o problema.

 

Em nossa opinião, também a cessão do Alasca polar por parte da Rússia aos Estados Unidos, no século XIX, representa um passo em direção à queda do Oriente do Norte espiritual. Não se há de duvidar do fato de que, se o Alasca tivesse permanecido nas mãos do Império Russo, o movimento bolchevique, fortificado no Gelo Eterno, teria empurrados suas hordas aos próprios portões da Pátria do Capitalismo. A sorte histórica seguramente teria sido diversa. No entanto, “os caminhos do Senhor são infinitos”, e Ele opera de maneiras misteriosas.

A ideologia eurasiática revivida pelo professor Dugin, e adaptada ao contexto pós-soviético, representa um destes modelos culturais alternativos, radicalmente verdadeiros, com os quais combater arduamente a Decadência iminente, para ataca-la em seu coração, nas suas contradições mais profundas, e superá-la gloriosamente. Não há dúvida de que as ações do antimoderno atingirão o seu objetivo porque, como dito pelo Para Urbano II durante o Concílio de Clermont: “Deus vult!” – Deus o quer. A Eurásia-Rússia, perfeito centro do Continente, da Heartland, representa hoje um farol de esperança para o Oriente e para o Sul do Mundo, para os europeus orgulhosos de suas próprias tradições e não alinhados ao unipolarismo estadounidense, não só geopolítico, mas também cultural, e para todos os Povos livres que sofreram o martírio por parte dos emissários da Decadência. Penso, neste momento, no heroico povo sírio, uma cidadela de Luz, onde os filhos de Deus xiitas, católicos e ortodoxos estão lutando tenazmente contra as hordas inimigas. A Eurásia, núcleo de reconciliação dos polos, porta do templo de Jano, que se abre para gerar a Unidade do real, se mostra como o Eixo do Mundo global, o templo geográfico, o ponto de partida para o landname total, a sacralização completa do Mundo, a Era do Espírito de Joaquim de Fiore, o Reino do Ar de Carl Schmitt, a terceira concepção espacial.

AMEN.

Tradução por Raphael Machado e Álvaro Hauschild

lundi, 08 octobre 2012

Völkerrecht oder Gesinnungsjustiz?

Völkerrecht oder Gesinnungsjustiz?

Wie die Justiz in der EU Erinnerungen dekretiert und ihrem Neo-Kolonialismus Flankenschutz gibt – zum neuen Buch von Hannes Hofbauer

von Tobias Salander

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

100862~1.JPGWem würde die geneigte Leserschaft die Beantwortung von Fragen zur Einschätzung historischer Abläufe gerne anvertrauen? Poli­tikern? Solchen rechter Ausrichtung? Oder linker? Oder Geistlichen? Christlicher, muslimischer, jüdischer, hinduistischer oder anderer Herkunft? Oder Europäern? Oder lieber Asiaten oder Afrikanern? Deutschen oder Franzosen, Rumänen oder Portugiesen? Senegalesen oder Kongolesen, Marokkanern oder Südafrikanern? Palästinensern oder Israeli? Wahabbiten, Schiiten oder der Nato? China oder Russ­land? – Oder? Vielleicht doch eher der Sache und nur der Sache, also den Quellen verpflichteten Historikern, die offen sind für neue Befunde, polyperspektivisch und quellen- und ideologiekritisch vorgehen, also Interessen hinter Sachverhalten aufspüren und offenlegen – dem humanistischen und aufklärerischen Ethos verbundenen Wissenschaftern?


Nun die Fragen: Waren die Kreuzzüge ein Völkermord? Die Ausrottung der amerikanischen Urbevölkerung und die Verschleppung von Millionen von Afrikanern als Sklaven in die Neue Welt – der grösste Genozid aller Zeiten? Wie ist der Aufstand in der Vendée während der Französischen Revolution einzuschätzen? Was hat sich 1898 wirklich auf dem US-Schlachtschiff «Maine» ereignet? Welches sind die Hintergründe des Schusses von Sarajewo 1914? Und des Massenmordes an den Armeniern im Ersten Weltkrieg? Wer verhalf Lenin zu seiner komfortablen Zugsreise nach St. Petersburg? Wer zündete den Reichstag an? Was geschah in Katyn? Warum bombardierten die Alliierten die Schienenwege nach Auschwitz nicht? Warum wurden die Atombomben auf Hiroshima und Nagasaki abgeworfen? Was geschah 1956 in Ungarn wirklich? Und was im Golf von Tongking? Was, wenn Operation Northwoods von Präsident John F. Kennedy nicht als unmoralisch zurückgewiesen worden wäre? Wer griff die USS «Enterprise» an? Was bedeuten die Stasi-Verbindungen des Mörders von Benno Ohnesorg? Wodurch unterschieden sich die RAF-Terroristen der ersten und der vierten Generation? Wer steckte hinter den Terroranschlägen in Italien in den 70er und 80er Jahren? War Gladio eine Widerstandsgruppe oder eine Terrororganisation? Der Blutsonntag von Vilnius vom 13. Januar 1991 – ein neues Auschwitz? Wer steckt hinter dem «Brotschlangen»-Massaker in Sarajewo? Und hinter dem Massaker in Srebrenica? Was spielte sich in Darfur ab? Sind die Verbrechen im kommunistischen Europa gleichbedeutend mit den Verbrechen der Nazi-Diktatur? War Miloševic der neue Hitler? Wie sind die Ungereimtheiten beim Einsturz von WTC 7 am Abend des 11. Septembers 2001 zu erklären? Hatte Saddam die Atombombe?

Wozu braucht die EU das Orwellsche «Richtig-Denk»?

Fragen über Fragen, mit denen sich jeder Schüler im Laufe seiner Schulzeit auseinandersetzen muss. Und woher erhält er die Antworten oder zumindest Ansätze von Antworten oder gar das Eingeständnis, die Frage könne derzeit nicht beantwortet werden? Durch den Geschichtslehrer, der bemüht ist, den Stand der Forschung zusammenzutragen und oft darauf hinweisen muss, diese oder jene Frage sei noch nicht zu klären, da die Archive noch nicht offen seien, die Dokumente einer Sperrfrist unterliegen oder nicht mehr vorhanden sind?

Wer dies denkt, dass die Klärung von historischen Fragen ein offener Prozess sei, dass in einer Demokratie Wahrheit stets errungen werden und strenger wissenschaftlicher Prüfung standhalten muss, immer offen für Korrekturen bei neu auftauchenden Quellen und Sachverhalten, sieht sich durch gewisse Abläufe der letzten Jahre innerhalb der EU eines besseren belehrt. Was in den USA (derzeit noch?) undenkbar wäre und die gross­artige Arbeit zum Beispiel eines investigativen Journalisten wie Seymour Hersh verunmöglichen würde (Aufdeckung der wahren Hintergründe des Massakers von My Lay, der Skandale um Abu Ghraib und US-Soldaten in Afghanistan etc. etc.), nimmt in der EU immer krassere Formen an: Immer häufiger ersetzen dort nämlich seit einem entsprechenden EU-Rahmenbeschluss aus dem Jahre 2008 Gerichtsurteile die Forschung und halten unter Strafandrohung fest, wie gewisse Ereignisse zu sehen seien. Wer diese Richtersprüche nicht zur Kenntnis nimmt, weiter forscht, sie auf Grund einschlägiger Erfahrungen mit bereits aufgedeckten False-Flag-Operations, Kriegslügen und Propaganda anzweifelt und Gegenhypothesen aufstellen will, sieht sich unvermittelt vor dem Kadi und zu Gefängnis oder einer hohen Geldstrafe verurteilt. Ob dieses obrigkeitlich verordnete Orwellsche «Richtig-Denk» die enormen Demokratiedefizite der EU kaschieren soll oder ob der juristische Griff auf laufende Auseinandersetzungen wie im Balkan der 90er Jahre, wo die EU und die Nato einen völkerrechtswidrigen Angriffskrieg führten, als Flankenschutz diente – oder ob die EU gar Grosskonzernen, welche die EU-Kommission nach Belieben dirigieren, bei der Übernahme neuer Märkte Schützenhilfe leistet, mithin also neokolonialistisches Gebaren juristisch absegnet – all diesen Fragen geht das kürzlich erschienene, sorgfältig recherchierte Bändchen von Hannes Hofbauer nach. Es trägt den Titel «Verordnete Wahrheit, bestrafte Gesinnung – Rechtsprechung als politisches Instrument». Hofbauer ist Wirtschaftshistoriker und Publizist und Kenner der EU, insbesondere von deren Ost-Erweiterung, die er schon in früheren Arbeiten als «Rückkehr des Kolonialismus» bezeichnete – man denke nur an das absolutistisch anmutende Gebaren der «Hohen Repräsentanten» in Bosnien-Herzegowina, die zwar von der Uno eingesetzt sind, aber zugleich als EU-Sonderbeauftragte fungieren.

Was in der Uno-Konvention zum Völkermord steht

Völkermord ist wohl das schlimmste Verbrechen, welches die Menschheitsgeschichte kennt. Wie viele Dutzend Millionen Menschen solchen Verbrechen zum Opfer gefallen sind, darüber streiten sich die Historiker. Doch was versteht man genau unter Völkermord? Gemäss der Konvention der Uno vom 9. Dezember 1948 mit dem Titel «Verhütung und Bestrafung von Völkermord» fallen alle Handlungen darunter, die in der Absicht begangen wurden, «eine nationale, ethnische oder religiöse Gruppe als solche ganz oder teilweise zu vernichten: a) die Tötung von Mitgliedern einer Gruppe, b) die Verursachung von schwerem körperlichem oder geistigem Schaden an Mitgliedern der Gruppe, c) die vorsätzliche Auferlegung von Lebensbedingungen, die geeignet sind, ihre körperliche Vernichtung ganz oder teilweise herbeizuführen, d) die Verhängung von Mass­nahmen, die auf Geburtenverhinderung innerhalb der Gruppe gerichtet sind, e) die gewaltsame Überführung von Kindern der Gruppe in eine andere Gruppe.» (zit. nach Hofbauer, S. 27)
Entscheidend für die Tat ist nicht die Zahl der dem Morden zum Opfer gefallenen Menschen, sondern der politisch oder religiös motivierte Wille, diese Menschen zu ermorden bzw. ihre Lebensgrundlage zu zerstören.

Zwei Strafgesetze – zwei historische Wahrheiten?

Doch wer definiert nun, wann ein Verbrechen als Völkermord eingestuft werden muss? Welche Gerichte sind dafür zuständig, und welche Rolle spielen bei den Entscheiden zeitgeschichtliche oder gar geopolitische Hintergründe? Hofbauer: «Wer masst sich den Richterspruch über historische Ereignisse an, der zu einem Leugnungsverbot mit Aussicht auf Gefängnisstrafe führt? Nationale Gerichte? Der Internationale Gerichtshof in Den Haag?» Um in die Problematik einzuführen, schreibt Hofbauer im Vorwort: «Leugnung und Verharmlosung von per Gerichtsbeschluss als Völkermord, Verbrechen gegen die Menschheit oder Kriegsverbrechen dekretierten Untaten werden in immer mehr Fällen und in immer mehr Ländern strafbar. So ist ein laut geäusserter Zweifel am Völkermord in Srebrenica seit einem entsprechenden EU-Rahmenbeschluss aus dem Jahr 2008 in der gesamten Europäischen Union ein Fall für den Staatsanwalt. Das Bestreiten des armenischen Völkermordes kann einen vor ein schweizerisches Gericht bringen. Umgekehrt landet jemand, der die Vertreibung der Armenier aus Anatolien im Jahr 1915 als Völkermord bezeichnet, in der Türkei (auch im europäischen Teil) vor dem Kadi. In vier osteuropäischen EU-Ländern ist die Leugnung kommunistischer Verbrechen – wer immer diese als solche festlegt – strafwürdig. Der ‹Holodomor› wiederum muss zwischen Lwiw, Odessa und Donezk ein Verbrechen gegen die ukrainische Nation genannt werden, sonst droht ein Gerichtsverfahren.» (S. 10)

Missliebige kollektive Erinnerungen EU-weit verfolgen

Mit grosser Sorge verfolgt Hofbauer die zunehmende Verrechtlichung der Meinungsbildung und die Verfolgung «falscher» Meinungen in der EU. Ausgehend von Antirassismus-Paragraphen und Paragraphen gegen die Leugnung nationalsozialistischer Verbrechen, die in den europäischen Staaten schon lange installiert sind und ihre Funktion durchaus erfüllen, sieht Hofbauer eine Tendenz, missliebige kollektive Erinnerungen EU-weit zu verfolgen. Dass dabei die Singularität des Holocaust stillschweigend über Bord geworfen wird, nehmen die Akteure offensichtlich ohne Probleme in Kauf. «Mit der Strafbarkeit der Leugnung aller möglichen Kriegsverbrechen und Völkermorde, sobald sie nur von einem internationalen Gericht als solche identifiziert wurden, hat eine Inflation von zu bestrafender Gesinnung eingesetzt, die der ursprünglichen Sonderstellung des Holocaust (bzw. seine Verharmlosung oder Leugnung) entgegensteht und diese in gewisser Weise verhöhnt.» (S. 10)

Erinnerungsgesetze als Flankenschutz geopolitischer und wirtschaftlicher Interessen

Dass der Auschwitz-Vergleich nun für alle möglichen Untaten herhalten muss, die Hofbauer durchaus als solche anerkennt, aber in der Gewichtung als unverhältnismässig einstuft und vor allem als weiterhin der forschenden Fragestellung zugänglich einfordert – Srebrenica als neues Auschwitz, der Blutsonntag von Vilnius mit 14 Toten als neues Auschwitz, die Konflikte in Darfur als neues Auschwitz, die kommunistische Herrschaft in Polen, Tschechien, Ungarn und anderen von 1949 bis 1989 gleichrangig dem Hitler-Faschismus –, dieser Sachverhalt lässt den Historiker aus Österreich zu folgender These kommen: «Die neuen Meinungsdelikte und Erinnerungsgesetze dienen als Flankenschutz geopolitischer und wirtschaftlicher Interessen. Diese Erkenntnis war die Motivation dafür, das vorliegende Buch zu schreiben. Dies fiel mir erstmals bei der Beobachtung des jugoslawischen Zerfallsprozesses der 90er Jahre und insbesondere der vom Westen daran anschliessend betriebenen ‹Erinnerungspolitik› auf. Schon die inneren Faktoren der südslawischen Desintegration wurden von aussen dynamisiert. Zur Rechtfertigung mehrfacher poli­tischer und militärischer Interventionen vor allem in Bosnien-Herzegowina und im Kosovo muss­ten vage und unterschiedlich interpretierbare Menschrechtsargumente herhalten, während das international kodifizierte Völkerrecht gebrochen wurde. Nato und westliche Medien arbeiteten dabei Hand in Hand. Externe Interessen am Zerfall des Vielvölkerstaates wurden kleingeredet oder gänzlich verschwiegen.» (S. 10f.) Dies, so Hofbauer weiter, sei zu Unrecht geschehen: «Denn ein Blick auf die Landkarte im Jahr 2011 zeigt, wie sich die auswärtigen Interessen durchgesetzt haben: US-Soldaten betreiben den grössten Militärstützpunkt in Europa im kosovarischen Camp Bondsteel; sogenannte Hohe Repräsentanten (der EU und der Uno) verwalten Bosnien-Herzegowina und das Kosovo im längst überwunden geglaubten Kolonialstil; und die ökonomischen Herzstücke Ex-Jugoslawiens, Slowenien und Kroatien, sind bzw. werden Teil der Europäischen Union. Darum, um grösstmöglichen Nutzen aus der südslawischen Desintegration ziehen zu können, führten die westlichen Institutionen, allen voran die Nato, Krieg.» (S. 11)

Wahrheitsverordnung macht Schule

Noch während des Krieges wurde der serbische Präsident vor einem ad hoc eingerichteten Tribunal angeklagt: «Die Anklage­erhebung des Jugoslawien-Tribunals erweiterte die politischen, wirtschaftlichen und militärischen Mittel um eine rechtliche Dimension.» (S. 11)
Um die neokoloniale Eroberung abzusichern und den «richtigen» Verlauf des Konfliktes in die Gehirne der Europäer einzubrennen, hat die EU gerichtlich festgelegt, welches die Wahrheit darüber sei – und bestraft jene, welche einer Siegergeschichtsschreibung noch nie über den Weg getraut haben.


Dass diese Form von Wahrheitsverordnung Schule gemacht hat, zeigen die Haftbefehle des Internationalen Strafgerichtshofes ICC gegen Staatschefs von Ländern, gegen die der Westen Krieg führt oder führte, so gegen al-Baschir im Sudan und Gaddafi in Libyen. Hofbauer betont, dass die Bestrafung der beiden genannten Männer sicher gerechtfertigt sei, nur agiere der Gerichtshof zu einseitig. Was ist mit den Greueltaten der Gegenseite? Gehen die vom Westen als «Gute» Titulierten straffrei aus? Und mit welcher Begründung? Und die Ironie der Geschichte? Sie bestehe darin, «dass die USA als eine der hauptsächlichen Betreiberinnen dieser Verfahren den Internationalen Strafgerichtshof selbst nicht anerkennen». (S. 12) Wie bekannt, müsste Den Haag mit einer schnellen Eingreiftruppe US-amerikanischer Spezialeinheiten rechnen, welche US-Kriegsverbrecher «befreien» würden, die auf Grund von Enthüllungen wie jenen von zum Beispiel Seymour Hersh in Den Haag auf ihren Prozess warteten.

Italienische Historiker wehrten sich erfolgreich

Hofbauers Kritik an der heraufziehenden Gesinnungsjustiz im Westen kommt, wie er selber sagt, zwar von links, doch könne sich jeder liberal Denkende anschliessen, denn: «Die Empörung beginnt bei der Beschneidung der Meinungsfreiheit, die ein zutiefst bürgerliches Gut darstellt.» (S. 263) Aufrufe von italienischen und französischen Historikern aus allen politischen Lagern gegen die Gesinnungsparagraphen und die Pönalisierung von Forschung bestätigen Hofbauer in seiner Auffassung – in Italien konnte die Erinnerungsdiktatur bisher abgewendet werden, während Frankreich munter voranschreitet und absurde Diktate verhängt, beispielsweise die Loi Taubira und die Loi Mékachéra, wobei erstere gewisse Aspekte des französischen Sklavenhandels verurteilt, während das zweite Gesetz als Reaktion der Kolonialisten darauf die Reinwaschung der eigenen Kolonialgeschichte in Nordafrika und Indochina per Gericht und unter Strafandrohung verordnet. (vgl. Hofbauer, S. 57ff.). Ein Ablauf, der zeigt, wie situationsbezogen und enorm instrumentalisiert und einer Demokratie und der freien Forschung Hohn sprechend solche Erinnerungsgesetze sind.

Gesinnungsparagraphen als Folge der 9/11-Antiterror-Hysterie

Da die Gesetzesgrundlagen in Europa schon längst ausreichten, um extremistische Gruppen in Schranken zu weisen, geht es nach Hofbauer hier um etwas anderes, was nur im Kontext der neokonservativen und neoliberalen Kriegsallianz seit 9/11 zu verstehen ist: «Die in Leugnungsverbote verpackten Gesinnungsparagraphen wären ohne die politisch und medial verbreitete Anti­terror-Hysterie nicht denkbar. Über den dabei entstandenen Verlust von Bürgerrechten ist viel geschrieben worden. Die Kriminalisierung von Meinung, mit der sich das vorliegende Buch beschäftigt, geht einen Schritt weiter: Sie bedroht politische Debatten und wissenschaftliche Forschung, hegemonisiert kollektive Erinnerung, verrechtlicht historische Ereignisse und tabuisiert Begrifflichkeiten (zum Beispiel ‹Völkermord›). Die hier analysierte Gesinnungsjustiz ist Teil einer umfassender betriebenen repressiven Politik, mit der die poli­tischen Eliten der Europäischen Union ihre Verluste an gesellschaftlicher Akzeptanz kompensieren wollen. Dass dies mit Verboten und Reglementierungen gelingt, darf bezweifelt werden. Der Strafandrohung bei ‹falscher› Gesinnung kommt in diesem System die Funktion eines kleinen, aber wichtigen Rädchens zu, zielt sie doch auf den intellektuellen Diskurs.» (S. 264)

Schutz der Meinungsfreiheit als erste Bürgerpflicht

Hofbauers Buch ist eine breite Leserschaft zu wünschen. Wenn daraus eine lebhafte und ernsthafte Diskussion entsteht, auf ehrlicher und an der Würde des Menschen orientierter Grundlage, so würde das den Millionen von Opfern kriegerischer Auseinandersetzungen sicher eher gerecht als die Errichtung einer leicht durchschaubaren Gesinnungsdiktatur in Europa und im übrigen Westen. Vielleicht lassen sich einige Europäer durch die Propagandawalze noch beeindrucken und sehen den Unterschied zwischen angeblichen Werten und effektiven Interessen nicht, die hinter schönfärberischen Worten wie «humanitäre Intervention», «Schutzverantwortung», «Bombenkampagne für die Menschenrechte» der Welt verkauft werden sollen. Ganz sicher ist aber der Rest der Welt, und das sind immerhin 88 Prozent, nicht so naiv und durchschaut die Heuchelei und die Doppelbödigkeit des Westens – dies jedenfalls betont der grosse Diplomat aus Singapur, Kishore Mahbubani, wieder und wieder. Wenn also Hofbauers exakte Studie ausserhalb der westlichen Hemisphäre mit ihren 12 Prozent der Weltbevölkerung offene Türen einrennen mag, so ist ihr im Westen eine ernsthafte Rezeption nur zu wünschen. Der stolze Westen der Renaissance, des Humanismus und der Aufklärung sollte nicht in der
Lage sein, würdig ins 21. Jahrhundert zu schreiten und eines der Grundprinzipien der Demokratie, die Meinungsfreiheit, zu schützen?     •

Hannes Hofbauer, «Verordnete Wahrheit, bestrafte Gesinnung – Rechtsprechung als politisches Instrument». Wien 2011, ISBN 978-3-85371-329-7

Tous les Etats doivent avoir le droit de participer, sur un pied d’égalité, à la politique mondiale

Tous les Etats doivent avoir le droit de participer, sur un pied d’égalité, à la politique mondiale

Le Conseil des droits de l’homme de l’ONU crée le mandat pour un expert indépendant pour la promotion d’un ordre international démocratique et équitable

Interview d’Alfred de Zayas, docteur en droit et philosophie

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

De-Zayas.jpgthk. Le 23 mars, Alfred de Zayas a été désigné, par le Conseil des droits de l’homme, comme expert indépendant auprès de l’ONU pour la promotion d’un ordre international démocratique et équitable. Il est le premier à avoir le droit d’assumer ce mandat créé en septembre 2011, pour pouvoir agir dans le domaine de la démocratisation de l’ONU et au sein des Etats nationaux unis en elle. Il est entré en fonction le 1er mai 2012. Déjà lors de la session d’automne 2012 du Conseil des droits de l’homme, Alfred de Zayas a présenté son premier rapport et a obtenu une large approbation. L’expert indépendant, qui présente une longue carrière à l’ONU, n’était pas venu tout à fait de manière inattendue à cette fonction, comme il le dit lui-même, car il s’est occupé depuis très longtemps de la question de l’organisation d’une vraie démocratie, c’est-à-dire de la démocratie directe, comme elle existe en Suisse. Avec son mandat, Alfred de Zayas souhaite s’engager pour la paix et l’égalité des peuples. «Horizons et débats» a interviewé Alfred de Zayas à l’ONU à Genève.

Horizons et débats: Monsieur de Zayas, comment doit-on comprendre la mission de votre mandat?

Alfred de Zayas: La mission comporte une synthèse des droits civiques, politiques, économiques, culturels et sociaux. C’est un mandat de réconciliation qui vise la coopération et la solidarité. Les Etats du Nord, du Sud, de l’Est et de l’Ouest doivent se retrouver dans ce mandat et reconnaître dans celui-ci un lien. C’est un mandat constructif qui repose sur les objectifs et les principes de la Charte des Nations Unies. Ce n’est donc pas un mandat qui se dirige contre un Etat, une région, une philosophie ou une idéologie spécifique.
Ici, il s’agit de deux choses: d’abord d’une démocratisation au niveau national, mais aussi au niveau des relations internationales entre Etats; ensuite d’un processus pour avancer dans la direction de l’équité nationale et internationale.

Que doit-on s’imaginer par une démocratisation à un niveau international?

Nous avons besoin d’un ordre mondial qui soit réellement démocratique, qui s’oriente vers les besoins des êtres humains. Cela signifie que tous les Etats doivent y participer. Lors de décisions qui touchent la vie communautaire de notre monde, tous les Etats en tant que représentants de leurs peuples doivent pouvoir s’exprimer. Cette égalité en droits, ce traitement égalitaire de tous est central dans le texte de la Résolution 18/6 qui fonde le mandat. Je me tiendrais exactement aux termes de la résolution, comme je l’ai déjà montré dans mon premier rapport.

A quoi veut-on parvenir avec cela?

Les Etats du soi-disant tiers-monde, les Etats du Sud, voudraient un ordre mondial qui soit basé sur la justice. Aussi bien le commerce que la distribution des ressources doit se dérouler équitablement. Le clivage entre pauvre et riche ne doit pas s’agrandir, mais diminuer. Sans que je doive désigner des Etats particuliers, je peux traiter le sujet à partir des connaissances théoriques si bien que je puisse remplir d’un contenu les termes comme démocratie, justice, équité, égalité, autodétermination et identité nationale. Mais on veut aussi formuler des recommandations pratiques et pragmatiques. Il y a déjà assez de livres sur la théorie des relations internationales.

Comment procédez-vous?

On trouve un grand nombre de sources aux Nations Unies. Je m’appuierai sur les rapports d’anciens rapporteurs, sur des études de la sous-commission de l’ancienne Commission des droits de l’homme et du Conseil des droits de l’homme même, ainsi que sur des études de l’Assemblée générale. Certes, je n’ai pas l’intention de répéter ce qui a déjà été fait. Cependant, je me baserai là-dessus. Comme vous le savez, j’étais secrétaire du Comité des droits de l’homme et chef du Département de requêtes à l’Office du Haut Commissaire aux droits de l’homme. La riche jurisprudence du Comité des droits de l’homme me soutient aussi.

Comment estimez-vous le degré d’efficacité de ce mandat?

Je suis très optimiste en ce qui concerne ce mandat, parce que beaucoup de réactions positives me sont parvenues depuis ma nomination et que mon adresse courriel a été publiée au sein de l’ONU, à savoir l’adresse ie-internationalorder@ohchr.org. Les ONG, les organisations intergouvernementales, les Etats, les organisations civiles et les individus m’ont contacté en apportant des propositions concrètes – par exemple comment ils comprennent mon mandat, où ils voient les priorités etc. Je prends au sérieux ces demandes et ces propositions. J’étudierai tout cela minutieusement. Déjà dans mon rapport au Conseil des droits de l’homme, j’ai cité dans le paragraphe 11, une liste de propositions sur des sujets que j’ai reçus de personnes intéressées. Je traiterai bien sûr ces propositions en priorité.

Que se passe-t-il avec toutes ces suggestions et demandes?

J’écrirai certainement un rapport sur le terme de participation de l’être humain à l’organisation politique de la démocratie, mais au niveau national et international, sur les questions de manipulation de l’opinion publique etc. Je présenterai ces études au Conseil des droits de l’homme l’année prochaine. Si je parle de démocratie, je pense à une véritable participation. Là, il ne s’agit pas seulement du droit de vote à l’intérieur d’un Etat, mais du droit de choisir la politique concrète. Cela comporte aussi le droit de participer à l’organisation des règles politiques. Des élections démocratiques tous les quatre ans, c’est une bonne chose, mais on doit avoir de véritables options et pas seulement voter pour la forme. La population doit également avoir la possibilité d’influencer la politique extérieure authentiquement, de sorte que les gouvernements ne puissent plus pratiquer une politique extérieure contre la volonté de la population.
Du point de vue international, les Nations Unies, respectivement le Conseil de sécurité, devraient être réformés afin de garantir une participation internationale plus representative, plus authentique, autrement dit, réaliser la démocratie.

En octobre, vous parlerez devant l’Assemblée générale. De quoi s’agira-t-il?

Oui, je dois présenter un autre rapport, plus détaillé, à l’Assemblée générale. Dans ce rapport, j’identifie une série d’obstacles et je tente de nommer les bonnes pratiques et je soumettrai mes recommandations à l’Assemblée générale. Cela se passera le 30 octobre 2012 à New York – Deo volente. Je verrai comment réagissent les Etats à mon rapport lors de l’Assemblée générale et ce qu’ils me proposeront.

Comment peut-on transmettre les fondements d’une vie communautaire démocratique à d’autres pays? Un «printemps arabe» ou des interventions militaires de l’OTAN n’aident certainement pas.

Je ne conçois pas mon mandat comme un mandat de «naming and shaming». Mon mandat, comme je l’ai dit, est constructif et il doit aider à comprendre ces termes partout de la même manière. Quand je parle de démocratie, cela devrait être plus ou moins semblable à ce qu’une personne entend par là en Amérique du Nord, en Amérique du Sud, en Australie, en Europe de l’Est, en Chine, en Inde ou en Afrique. Il n’est pas possible que chacun comprenne la démocratie à sa façon, et il n’est pas acceptable non plus que chacun applique le droit international à sa guise. Un des obstacles principaux à la paix mondiale et à la création d’un «ordre mondial» démocratique et juste est que de nombreux Etats n’appliquent pas le droit international de la même façon, ici ils disent oui et là ils disent non. Sans vouloir critiquer certains Etats, je voudrais attirer l’attention sur cette problématique fondamentale. Finalement, pour utiliser une expression anglaise, je crois que «The bottomline is participation.»

Cela veut dire?

Cela veut dire que les citoyens doivent pouvoir prendre part et participer à l’organisation de la politique et ceci directement. Le modèle de la démocratie directe offre ici beaucoup d’éléments. On doit avoir la possibilité d’initier une loi. La possibilité de contrôler des lois par des référendums, mais aussi la possibilité de demander des comptes aux fonctionnaires gouvernementaux, respectivement aux hommes politiques quand ils font une toute autre politique que celle qu’ils ont promise – cela doit être l’essence de la démocratie. Les politiques élus doivent pouvoir être poursuivis, quand ils n’ont pas tenu leur promesse qu’ils ont faite aux citoyens et ainsi abusé de leur confiance. C’est pourquoi on doit pouvoir éloigner ces personnes de leurs fonctions. Chez nous aux Etats-Unis, il existe le terme de «recall» ou d’«impeachment».
J’étudierai donc exactement le modèle de la démocratie directe. Il s’agit de la question de savoir comment on pourrait appliquer ce modèle avec certaines modifications dans d’autres pays. Toutefois, on doit tenir compte pour chaque pays de son histoire, de sa culture, de sa tradition et de ses représentations individuelles de la vie communautaire.

D’après vous, quel rôle l’Etat national jouera-t-il ici?

Comme dans la Grèce antique, un Etat est né avec la Polis, où les citoyens pouvaient prendre part à la politique, cela doit valoir aussi pour les différents pays. Donc, l’Etat national est décisif dans ce processus. Du point de vue international, nous voudrions que tous les Etats aient le droit d’organiser la politique mondiale sur un pied d’égalité. Mais aussi à l’intérieur, donc au niveau national, les citoyens d’un certain Etat doivent accepter les véritables lois pour eux, pour leur propre identité, pour leur propre culture et choisir une politique garantissant les droits de l’homme et la dignité de tous les citoyens.

Monsieur De Zayas, nous vous souhaitons beaucoup de succès dans l’accomplissement de votre mandat et vous remercions de cet entretien.    •

Monsieur de Zayas invite les lecteurs à partager leurs idées en envoyant leurs propositions à l’adresse suivante: ie-internationalorder@ohchr.org
(Traduction Horizons et débats)

Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij

Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij

Edi CLIJSTERS

Ex: http://www.uitpers.be/  

 
Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij
 

Fanny Wille & Kris Deschouwer, Over mensen en macht. Coalitievorming in de Belgische gemeenten, Brussel, ASP, 2012; 192 pp.

Je kan natuurlijk, een oud anarchistisch motto indachtig, van oordeel zijn dat verkiezingen in een burgerlijke democratie eigenlijk altijd en hoe dan ook volksverlakkerij zijn, want “als verkiezingen écht iets zouden veranderen, waren ze al lang afgeschaft”.

Je kan ook geloven dat die burgerlijke democratie vooralsnog het minst slechte van de reëel bestaande systemen is om het volk enige inspraak  te geven in de beleidsvorming. En dat in gemeenten – bakermat bij uitstek van democratische rechten en vrijheden – verkiezingen de mensen meer aanspreken, juist omdat ze nauwer aansluiten bij wat die mensen dag-in, dag-uit rond zich zien.

Helaas: zoals dat wel vaker het geval is, houdt dit beate wensdenken geen stand wanneer het aan ernstig onderzoek wordt onderworpen. Wat betreft de motivatie van de kiezer, spreken de cijfers voor zich : ondanks de (theoretische) opkomstplicht, laten ook bij verkiezingen voor gemeente- of provincieraden ongeveer enkele honderdduizenden kiesgerechtigde burgers het afweten (dat is zo'n 5 à 7 procent, ongeveer hetzelfde percentage als bij regionale of nationale verkiezingen).
De grotere nabijheid van kandidaten en thema's blijkt dus niet van aard om kiezers sterker te motiveren. Je kan dus met recht en reden de vraag stellen wat er zou gebeuren indien de opkomstplicht werd afgeschaft. Met name dan op gemeentelijk vlak. Want een recent boek van twee VUB-politologen heeft wel verrassende dingen – en zelfs een ronduit schokkend feit - aan het licht gebracht over het allesbehalve democratische karakter van die verkiezingen-onder-de-kerktoren.

Nu ja ...aan het licht gebracht ? Het onderzoek bevestigt een dubieus verschijnsel dat op lokaal vlak vaak werd vermoed of zelfs aangetoond, maar toch een bijzondere relevantie krijgt nu blijkt dat het schering en inslag is. In tal van gemeenten wordt namelijk al (lang) voor de gemeenteraadsverkiezingen via geheime voor-akkoorden uitgemaakt hoe de toekomstige bestuurscoalitie er zal uitzien. Het kiezerspubliek in het algemeen en de eigen achterban in het bijzonder wordt daarover geheel in het ongewisse gelaten. En tenzij de kiezers een (lokale...) politieke aardverschuiving teweegbrengen, tellen ze dus alleen maar mee “voor spek en bonen”.
Verrassend ? Schokkend ? Leerrijk in elk geval. En daarom een element in het boek dat helaas te weinig in de verf wordt gezet door de auteurs zelf, én – driewerf helaas – ook door de commentatoren die de praktijken (zouden moeten) kennen.

Maar eerst iets meer over het boek. Dat is gebaseerd op het onderzoek waarop Wille aan de VUB promoveerde, en wil zo diep mogelijk “doordringen in de zwarte doos” van de coalitievorming op lokaal niveau. Daartoe worden diverse theorieën m.b.t. coalitievorming besproken en getoetst aan de lokale realiteit – die er doorgaans heel anders uitziet. Vervolgens worden systematisch de opeenvolgende stappen ontleed die leiden tot de vorming van deze of gene coalitie, en uitvoerig aandacht besteed aan de onderlinge krachtverhoudingen, onderscheiden spelers, uiteenlopende dan wel convergerende beleidsopties, en omgevingsfactoren. Dat is een mondvol, en zelfs meer dan dat.

Want het boek lijdt aan wat ik beleefd zal omschrijven als “didactische overkill”. U herinnert zich misschien wel die prehistorische stelregel die voorschreef hoe een goede les of redevoering moest worden opgebouwd: eerst zeg je wat je gaat vertellen, dan vertel je dat, en vervolgens besluit je door samen te vatten wat je verteld hebt. De regel mag dan uit het pre-electronische steentijdperk dateren, in dit boek wordt hij grondig, zéér grondig toegepast. Kortom: als er pakweg 30 van de 180 bladzijden tekst waren geschrapt, had dit de duidelijkheid niet geschaad, en de lezer toenemende ergernis bespaard. De bekommernis om dingen duidelijk uit te leggen kan ik alleen maar toejuichen; maar je mag de lezer die een boek als dit überhaupt ter hand neemt ook niet behandelen als een nitwit aan wie je vijf keer hetzelfde moet uitleggen.

Daarmee heb ik meteen het eerste aspect aangeduid dat mij heeft geërgerd, en kan ik terugkeren tot wat dit boek wél leerrijk en vaak zelfs boeiend maakt.

Een goed overzicht van de diverse theorieën over coalitievorming, om te beginnen. Daar is niets mis mee; alleen dienen de auteurs er – zeer terecht – herhaaldelijk op te wijzen dat die theorieën vooral slaan op 'echte' regeringsvorming, maar nauwelijks een rol spelen wanneer op lokaal vlak coalities moeten worden gesloten. Wat daar telt is: in de bestuursmeerderheid geraken, tot ongeveer elke prijs. Macht dus.

Maar ook : mensen. Ook in dat opzicht verschilt kleinschalige coalitievorming duidelijk van die op een hoger niveau. In de gemeente telt, veel meer dan in regionale of nationale regeringen, of individuen “met elkaar kunnen” of niet.

Dat zijn alvast twee betekenisvolle verschillen, en ze worden uitvoerig uit de doeken gedaan.
Er is nog een derde verschil : in België is het op nationaal of zelfs regionaal niveau zo goed als ondenkbaar dat één enkele partij een absolute meerderheid verovert en dus alleen zou kunnen regeren. Terwijl in Vlaanderen in ruim een derde van de gemeenten - en in Wallonië zelfs in meer dan de helft ! - één enkele partij alleen 'regeert'.Omgekeerd kan het spel van de coalitievorming er toe leiden dat de grootste partij uit de boot valt; dat blijkt in ongeveer 10 procent van de gemeenten het geval, en dat is dan weer een verschijnsel dat men op een hoger bestuursniveau evengoed aantreft.

Het boek ontleedt minutieus alle stappen in het onderhandelingsproces dat moet uitmonden in een nieuw college van burgemeester en schepenen; ook de waarde van belangrijke posities in OCMW en intercommunales worden niet uit het oog verloren. Zo krijgt de lezer een gedetailleerd beeld van wat zich zo al allemaal afspeelt voor, tijdens en na de verkiezingsslag, voor en achter de schermen.
Veel daarvan is voor de geïnteresseerde waaarnemer niet echt nieuw, en in die zin vormt het boek een zoveelste illustratie van de vaak gehoorde misprijzende bedenking dat nogal wat sociaal- of politiek-wetenschappelijk onderzoek weinig méér doet dan bevestigen “wat iedereen al wist”.

Alleen wordt dat dan nu als 'bewezen' beschouwd...
Tegenover dit soort goedkope kritiek is het bijzonder jammer dat de écht nieuwe, ophefmakende onthulling van dit onderzoek niet duidelijker in de verf wordt gezet: dat er namelijk al zoveel wordt beslist, lang vóór de verkiezingen en ver àchter de schermen. Dat voor-akkoorden om in dezelfde of in een nieuwe coalitie samen te besturen al zijn afgesloten (en soms zelfs bij een notaris gedeponeerd) lang vóór de kiezer zijn zeg heeft gehad.

Dàt zoiets gebeurt is al kras. Nog krasser is de vaststelling dat die praktijk schering en inslag is. Want daarover laten de auteurs geen twijfel: “waar men gaat langs Vlaamse of Waalse wegen komt men voorakkoorden tegen” !

Hier situeert zich dan ook mijn tweede essentiële kritiek. Er valt zeker iets te zeggen voor de stelling dat een wetenschappelijk onderzoek zich moet of mag beperken tot het aan het licht brengen van bepaalde mechanismen, maar zich dient te onthouden van een waarde-oordeel daarover. Maar wanneer je achteraf op basis van dat onderzoek een boek op de markt brengt dat toch duidelijk bedoeld is voor een breder publiek … moet je wellicht wél je nek uitsteken en duidelijk een standpunt innemen tegenover een uitgesproken ondemocratisch verschijnsel. Dat mag zeker worden verwacht van wetenschappers die er doorgaans niét voor terugschrikken het politieke wereldje de les te lezen...

Zo'n duidelijk standpunt ontbreekt in dit boek. Met een “iedereen doet het” is de kous m.i. niet af, wanneer je vaststelt dat de wil van de kiezer op zo'n flagrante manier buiten spel wordt gezet – zelfs al is dat dan slechts op lokaal niveau. En dat verkiezingen de politiek nu eenmaal tot een “hoogst onzekere omgeving” maken, tja … dat geldt tenslotte niet alleen voor het gemeentelijke niveau. Het is precies een wezenskenmerk van democratie dat machthebbers die macht ook kunnen verliezen. Dat zij zich aan die onzekerheid willen onttrekken is ongetwijfeld begrijpelijk vanuit hùn standpunt, maar niet vanuit dat van iemand die begaan is met de kwaliteit van onze democratie.

Dat een partij nog voor de verkiezingen een bondgenootschap aangaat met een of meer andere partij(en) kan alleen maar worden gerechtvaardigd indien dat ook open en eerlijk gebeurt, zodat de kiezers weten waar ze aan toe zijn. Dan kunnen ze nog altijd soeverein uitmaken of ze dat spel meespelen of niet.

Het zou dus bijvoorbeeld leerrijk zijn geweest enkele gevallen – of tenminste één geval – nader te onderzoeken waarin een bestaand voor-akkoord niet kon worden uitgevoerd omdat uiteindelijk de kiezer de kaarten beduidend anders deelde dan verwacht. Want misschien gebeurde dat juist omdat men een of andere afspraak vermoedde, en die wou doorkruisen. Wie wil, mag dat als een suggestie voor een volgend proefschrift beschouwen.

Méér dan een suggestie is mijn laatste punt van kritiek: over het feit dat allerlei belangrijke posities in intercommunales helemààl niet aan het oordeel van de kiezer worden onderworpen, wordt in dit boek ook ergerlijk licht heengegaan. Je kan natuurlijk aanvoeren dat dit tenslotte de 'prijs' is die de winnaars in de wacht slepen. Maar recente gebeurtenissen hebben, dacht ik, toch voldoende aangetoond dat ook – of zelfs met name – op dat niveau wat meer democratische controle en inspraak zeker geen kwaad kan. Kortom: ook hier schieten de kritische wetenschappers tekort.

Slotsom: een leerrijk en zelfs onthullend, maar uiteindelijk onbevredigend boek, omdat het te braaf blijft.

jeudi, 04 octobre 2012

IMPERIO: ORDEN ESPACIAL Y ESPIRITUAL

ELEMENTOS Nº 32.

IMPERIO: ORDEN ESPACIAL Y ESPIRITUAL

 

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SUMARIO.-

Translatio Imperii: del Imperio a la Unión,
por Peter Sloterdijk

¿Hacia un modelo neoimperialista?
Gran espacio e Imperio en Carl Schmitt, 
por Alessandro Campi

¿Europa imperial?, 
por Rodrigo Agulló

Imperialismo pagano, 
por Julius Evola

El concepto de Imperio en el Derecho internacional,
por Carl Schmitt

Nación e Imperio, 
por Giorgio Locchi

El Imperium a la luz de la Tradición, 
por Eduard Alcántara

Imperio sin Imperator, 
por Celso Sánchez Capdequí

Imperio: Constitución y Autoridad imperial, por Michael Hardt y Antonio Negri

La teoría posmoderna del Imperio, 
por Alan Rush

El Imperium espiritual de Europa: de Ortega a Sloterdijk, 
por Sebastian J. Lorenz
 
 

mercredi, 03 octobre 2012

Aujourd'hui, gouverner, c'est se faire voir...

Ex: http://zentropa.info/

La mise en scène de la vie privée des hommes publics est-elle un avatar de la personnalisation du pouvoir sous la Ve République ou traduit-elle une évolution plus profonde ?

Le pouvoir, royal ou républicain, a toujours été une représentation faite de signes, de symboles, d’images. Mais jamais il ne s’est résumé à cela. Il est verbe, mais aussi action, projet, décision. Aujourd’hui, la parole politique se croit performative. On s’imagine que dire, c’est faire ou que se montrer, c’est exister. Parfois oui, mais il y a toujours un réel qui ne se laisse pas faire.

Le renoncement à l’action patiente au profit de l’immédiateté de la parole et de la visibilité obscène de la posture a commencé dans les années 1980, quand Mitterrand a laissé le journaliste Yves Mourousi poser ses fesses sur son bureau de présentateur de TF1 lors d’un entretien en parler « chébran ». Avant lui, Giscard avait convoqué les médias pour jouer de l’accordéon.

Derrière cette volonté d’être « comme tout le monde » se cache mal la certitude de ne pas être n’importe qui. Les politiques, qui autrefois visaient à rassembler les Français, ne pensent plus qu’à leur ressembler. Au prix d’une coupure avec ce qu’Orwell appelait la « décence commune ». J’aime ce mot : commun, même s’il a été dévalué et sali par le communisme. Commun, cela évoque le bien commun, qui reste en principe la visée ultime de l’action politique ; et aussi le sens commun, qui n’est pas le bon sens auquel Sarkozy faisait appel à répétition, mais le sens partagé dans ce qu’on appelait autrefois une société.

Il y a donc une sorte de vulgarisation de la parole publique ?

Une mutation profonde, oui. Les politiques s’adressent à ceux qu’on ne peut plus vraiment appeler des citoyens ni des sujets, mais des individus de masse. Quelle honte qu’un Berlusconi dans un pays de haute culture, qu’un Sarkozy dans un pays de littérature revendiquent le parler vulgaire pour parler au « vulgaire », c’est-à-dire au peuple tel que le voient ceux qui se croient appelés à le séduire pour le dominer ! Les dirigeants parlent au peuple ? Non, les « people » parlent à ceux qui n’en seront jamais ; « people » désignant justement ceux que les gens du peuple à la fois envient parce qu’ils ont mieux réussi qu’eux, et méprisent parce qu’ils les devinent enfermés dans le peu d’être que leur laisse leur appétit d’avoir.

De même qu’il n’y a plus de différence entre vie privée et vie publique, la langue publique, autrefois proche du français écrit (Blum, de Gaulle), est non seulement une langue parlée, mais mal parlée. Une langue privée, pleine de sous-entendus égrillards, de dérapages « caillera », de mots empruntés au vocabulaire de l’économie ou du sport que l’on croit seuls compréhensibles par le public.

Est-ce la conséquence de l’hypermédiatisation de la démocratie ?

Au stade actuel, l’on ne médiatise plus seulement une politique mais l’homme politique lui-même, son image rectifiée parfois par la chirurgie esthétique et toujours par des conseillers en look. Au bout de cette double dégradation du pouvoir et de la parole, on voit aujourd’hui le ridicule des hommes politiques poussant la chansonnette dans les émissions de variétés, comme Copé ou Jospin. Vulgarité des puissants que résume la détestable expression répétée par les médias : « première dame de France ». A quand son inscription dans ce fourre-tout qu’est notre Constitution ?

La médiatisation a tué l’action publique. Gouverner, c’est prévoir, disait l’adage. Aujourd’hui, gouverner, c’est se faire voir. Un point, c’est tout. La politique était naguère une scène : meetings, estrades, arène du Parlement. Elle est devenue écran, miroir où gouvernants et gouvernés se regardent en reflets pixellisés.

La sphère politique n’obéit-elle pas à une forme banale d’individualisme contemporain ?

Les politiciens souffrent d’une dépendance qui ne leur est pas propre mais qui atteint chez eux la dimension d’une véritable addiction à l’image : ne se sentir être que si une caméra le confirme. La télévision est pour eux ce qu’est devenu le portable pour chacun de nous : un objet transitionnel rassurant. Culte du moi, narcissisme des petites différences, perte de tout trait singulier : la même dérive frappe les hommes politiques comme les hommes ordinaires. Le dévoilement - par eux-mêmes d’abord - de la vie privée des hommes publics est l’un des traits de cette culture de la perversion narcissique qui nous surprit sans nous faire rire lorsque naguère, devant les caméras, un premier ministre montra son vélo, un autre accepta de parler de fellation, et un président de la République, un été à Brégançon, n’hésita pas à exposer son pénis vigoureux à l’objectif des photographes.

Sans doute la psychopathologie des dirigeants a-t-elle changé comme celle de l’ensemble des individus dans nos sociétés postmodernes : de moins en moins de névrosés et de plus en plus de personnalités narcissiques, parfois de pervers. L’homme politique est sans doute « normal » (non au sens d’une règle morale, mais d’une norme statistique), lorsqu’il devient fou. Fou de lui-même comme tant d’individus aujourd’hui. « L’homme qui n’aime que soi, disait Pascal, quand il se voit ne se voit pas tel qu’il est mais tel qu’il se désire. » Le moi n’est pas toujours haïssable, mais lorsque, en politique, il prend la place du « je », il verse dans l’autopromotion du vide. Qui ne se souvient du « Moi président », anaphore quinze fois répétée par François Hollande, dans son débat avec Nicolas Sarkozy…

Le narcissisme est-il incompatible avec la démocratie ?

Dans les sociétés de narcissisme, les électeurs comme leurs élus sont centrés sur la réalisation persistante d’eux-mêmes au détriment de la relation aux autres, figés sur le présent et incapables de différer leur satisfaction. Peut-être les Français n’ont-ils que la classe politique qu’ils méritent.

Le « moi-isme » règne sur les écrans postmodernes. De Facebook à Twitter en passant par les reality-shows, tout le monde parle et personne ne dit rien. Comme le règne de l’autofiction dans la littérature exhibe l’auteur plus que son oeuvre, la vie intime de nos contemporains devient virtuelle. Il n’y a plus d’images privées, de significations privées. Il y a la même différence entre la démocratie représentative et la démocratie directe qu’entre un portrait et un instantané rectifié par Photoshop.

Je tiens à ce mot de représentation, essentiel à la démocratie. On disait autrefois : « faire des représentations » aux princes, pour désigner des critiques ou des demandes d’une société divisée et contradictoire. Cela fait place aujourd’hui, dans la démocratie participative et interactive, à la « présentation » de soi par soi. L’ère des médias désigne justement un état de fait où les médias ne médiatisent plus rien, mais transmettent vers le haut les résultats des sondages et vers le bas les « éléments de langage ». Les sondages, multipliés avant même de prendre une décision, et souvent dictant une décision, ne datent pas non plus de Sarkozy et de son conseiller, Patrick Buisson. Gérard Colé, conseiller de Mitterrand, avalisait déjà toutes les mesures gouvernementales, et cette emprise de la communication sur l’action permit aux Pilhan et Séguéla de servir la droite puis la gauche, ou inversement.

La politique n’a-t-elle pas besoin de récits, et le pouvoir, d’incarnation ?

Les grands récits sont morts avec le siècle passé : révolution, Etat, nation… Mais les politiques croient que les électeurs attendent toujours qu’on leur raconte non plus l’Histoire mais des histoires, comme aux enfants pour qu’ils s’endorment. De Gaulle ne disait pas aux Français ce qu’ils voulaient entendre, ni ce qu’il croyait qu’ils voulaient entendre, mais ce qu’il voulait leur faire entendre. L’image ment, mais elle fait rêver.

La démocratie a un pilier, disait Hannah Arendt, la séparation entre vie privée et vie publique. Or, on assiste aujourd’hui à un double mouvement : d’une part la publicisation de la vie privée, y compris amoureuse (inaugurée par Sarkozy, poursuivie par Hollande) ; de l’autre, la privatisation de la sphère publique sous l’effet à la fois du rétrécissement du domaine d’intervention de l’Etat et de la multiplication d’ « affaires » relevant, pour le moins, du conflit d’intérêts. Ce mouvement se double d’un autre, qui brouille plus encore les repères : d’une part la sexualisation de la vie des responsables politiques, alors que la sexualité est au plus intime de la vie privée ; d’autre part la politisation des questions sexuelles, comme en témoignent les projets de l’actuel gouvernement sur le harcèlement sexuel, le mariage gay, voire la suppression de la prostitution…

La démocratie commence par la reconnaissance de la nécessité d’un pouvoir légitime et, comme le dit le grand psychanalyste anglais Donald Winnicott, par « l’acceptation qu’il ne soit pas fait selon nos désirs mais selon ceux de la majorité ». Elle s’arrête quand le pouvoir ne se contente pas d’être obéi mais veut être aimé. Français, encore un effort pour être démocrates !

Michel Schneider

lundi, 01 octobre 2012

Alle Staaten sollen das Recht haben, gleichwertig und gleichberechtigt die Weltpolitik zu gestalten

Alle Staaten sollen das Recht haben, gleichwertig und gleichberechtigt die Weltpolitik zu gestalten

UN-Menschenrechtsrat schafft das Mandat des Unabhängigen Experten zur Förderung einer demokratischen und gleichberechtigten Weltordnung

Interview mit Professor Dr. iur. et phil. Alfred de Zayas

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

zayas.jpgthk. Professor Dr. iur. et phil. Alfred de Zayas wurde am 23. März zum Unabhängigen Experten bei der Uno zur Förderung einer demokratischen und gleichberechtigten Weltordnung vom Menschenrechtsrat ernannt. Er ist der erste, der dieses neu geschaffene Mandat übernehmen durfte, um so im Bereich der Demokratisierung der Uno und der in ihr vereinten Nationalstaaten wirken zu können. Bereits in der Herbstsession des Uno-Menschenrechtsrates hat Alfred de Zayas seinen ersten Bericht vorgelegt und ist dabei auf grosse Zustimmung gestossen. Der Unabhängige Experte, der eine lange Karriere an der Uno aufweist, war, wie er selbst sagte, nicht ganz unerwartet zu diesem Amt gekommen, da er sich schon sehr lange mit der Frage der Ausgestaltung echter, das heisst direkter Demokratie, wie sie in der Schweiz existiert, beschäftigt hat. Mit seinem Mandat möchte sich Alfred de Zayas für den Frieden und die Gleichwertigkeit der Völker einsetzen. Zeit-Fragen hat Professor de Zayas an der Uno in Genf getroffen.

Zeit-Fragen: Herr Professor de Zayas, wie muss man die Aufgabe Ihres Mandats verstehen?

Prof. Dr. de Zayas: Die Aufgabe bedeutet eine Synthese von bürgerlichen, politischen, wirtschaftlichen, kulturellen und sozialen Rechten. Es ist ein versöhnliches Mandat, das auf Zusammenarbeit bzw. Solidarität abzielt. Die Staaten des Nordens, des Südens, des Ostens und des Westens sollen sich in diesem Mandat finden und darin etwas Verbindendes sehen. Es ist ein konstruktives Mandat, das auf den Zielen und Grundsätzen der Uno-Charta aufbaut. Es ist also kein Mandat, das gegen einen bestimmten Staat, gegen eine bestimmte Region, gegen eine bestimmte Philosophie oder Ideologie zielt.
Hier geht es um zweierlei: um eine Demokratisierung auf der nationalen Ebene, aber auch auf der zwischenstaatlichen, internationalen Ebene.

Was muss man sich unter einer Demokratisierung auf internationaler Ebene vorstellen?

Wir brauchen eine Weltordnung, die wirklich demokratisch ist, die sich an den Bedürfnissen der Menschen orientiert. Das bedeutet, dass alle Staaten daran beteiligt werden müssen. Bei Entscheidungen, die das Zusammenleben auf unserer Welt betreffen, müssen alle Staaten als Vertreter ihrer Völker etwas zu sagen haben. Diese Gleichberechtigung, die Gleichwertigkeit aller, ist zentral im Text der Resolution 18/6, die das Mandat begründet hat. Ich werde mich sehr genau an den Wortlaut der Resolution halten, wie ich bereits in meinem ersten Bericht gezeigt habe.

Was soll damit erreicht werden?

Die Staaten der sogenannten dritten Welt, die Staaten des Südens, möchten eine Weltordnung, die auf Gerechtigkeit basiert. Sowohl der Handel als auch die Verteilung der Ressourcen muss gerecht geschehen. Die Kluft zwischen Arm und Reich darf nicht weiter vergrössert, sondern muss verkleinert werden. Ohne dass ich bestimmte Staaten nennen muss, kann ich die Thematik erkenntnistheoretisch so behandeln, dass ich Begriffe wie Demokratie, Gerechtigkeit, Gleichwertigkeit, Gleichberechtigung, Selbstbestimmung und nationale Identität mit Leben füllen kann.

Wie ist hier Ihre Vorgehensweise?

Es finden sich bei den Vereinten Nationen enorme Quellen dazu. Ich werde mich dabei auf die Berichte von ehemaligen Rapporteuren stützen, auf Studien der Unterkommission der ehemaligen Menschenrechtskommission, des Menschenrechtsrates selbst oder auf Studien der Generalversammlung. Gewiss beabsichtige ich keine Wiederholung dessen, was bereits gemacht worden ist. Ich werde aber darauf aufbauen. Wie Sie wissen, war ich Sekretär des Menschenrechtsausschusses und Chef der Beschwerdeabteilung. Auch die Jurisprudenz des Ausschusses steht mir zur Seite.

Wie schätzen Sie den Wirkungsgrad dieses Mandats ein?

Ich bin sehr optimistisch, was das Mandat anbetrifft, weil bereits viele positive Reaktionen bei mir angekommen sind, seitdem ich ernannt und meine E-Mail-Adresse an der Uno für alle bekannt wurde, nämlich ie-internationalorder(at)ohchr.org. NGO, Intergouvernamentale Organisationen, Staaten, zivile Organisationen und einzelne Personen haben sich mit konkreten Vorschlägen bei mir gemeldet – zum Beispiel, wie sie mein Mandat verstehen, wo sie die Prioritäten sehen usw. Diese Anliegen und Vorschläge nehme ich ernst. Ich werde alles genauestens studieren. Bereits in meinem Bericht an den Menschenrechtsrat habe ich unter Absatz 11 eine Liste von Themenvorschlägen, die ich von Interessierten erhalten habe, zitiert. Ich werde diese Vorschläge natürlich bevorzugt behandeln.

Was entsteht aus all diesen Anregungen und Anfragen?

Ich werde mit hoher Wahrscheinlichkeit einen Bericht über den Begriff der Partizipation bzw. der Teilnahme der Menschen an der politischen Gestaltung in der Demokratie schreiben, aber über die Mitbestimmung auf der nationalen und internationalen Ebene, über Fragen der Manipulierung der öffentlichen Meinung usw. schreiben. Diese Studien werde ich dann nächstes Jahr dem Menschenrechtsrat vorlegen. Dabei geht es innerstaatlich nicht nur um das Wahlrecht, sondern auch um das Recht, politische Regeln mitzugestalten. Demokratische Wahlen alle vier Jahre sind eine gute Sache, aber man muss wirkliche Optionen haben und nicht nur pro forma stimmen. Die Bevölkerung muss auch die Gelegenheit haben, die Aussenpolitik authentisch mitzugestalten, so dass Regierungen nicht mehr gegen den Willen der Bevölkerung Aussenpolitik betreiben können.
International gesehen, sollten die UN bzw. der Sicherheitsrat insofern reformiert werden, dass mehr internationale Teilnahme bzw. Demokratie verwirklicht wird.

Im Oktober sprechen Sie vor der Generalversammlung. Worum geht es dort?

Ja, ich muss einen anderen ausführlicheren Bericht der Generalversammlung präsentieren. In diesem Bericht identifiziere ich eine Reihe von Hindernissen und versuche, gute Praktiken zu nennen und der Generalversammlung Empfehlungen zu unterbreiten. Das wird am 30. Oktober 2012 in New York – deo volente – geschehen. Ich werde sehen, welche Reaktionen die Staaten in der Generalversammlung auf meinen Bericht zeigen, was sie mir vorschlagen werden.

Wie kann man die Grundlagen des demokratischen Zusammenlebens anderen Ländern vermitteln? Ein «arabischer Frühling» oder militärische Interventionen der Nato helfen hier sicher nicht weiter.

Ich verstehe mein Mandat nicht als ein Mandat des Naming and Shaming. Mein Mandat ist, wie bereits gesagt, ein konstruktives, das helfen soll, diese Begriffe überall gleich zu verstehen. Wenn ich Demokratie sage, sollte das mehr oder weniger dasselbe sein, was auch eine Person in Nordamerika, Südamerika, Australien, Osteuropa, China, Indien oder Afrika darunter versteht. Es darf nicht sein, dass Demokratie à la carte verstanden wird, genauso wenig, wie es inakzeptabel ist, dass das Völkerrecht nach Belieben angewandt wird. Eines der Haupthindernisse für den Weltfrieden und das Erreichen einer demokratischen und gerechten «Weltordnung» ist nämlich, dass viele Staaten das Völkerrecht nicht gleichmässig anwenden, hier sagen sie ja und dort nein. Ohne bestimmte Staaten kritisieren zu wollen, möchte ich auf diese fundamentale Problematik hinweisen. Letztlich glaube ich, um ein englisches Wort zu verwenden: «The bottomline is participation.»

Das bedeutet?

Das heisst, die Bürger müssen an der Politik teilhaben und mitgestalten können, und zwar direkt. Das Modell der direkten Demokratie bietet hier enorm viel. Man muss die Möglichkeit haben, eine Gesetzgebung zu initiieren. Die Möglichkeit zur Prüfung von Gesetzen durch Referenden, aber auch die Möglichkeit, Regierungsbeamte bzw. Politiker zur Rechenschaft zu ziehen, wenn sie eine ganz andere Politik führen, als sie versprochen haben – das muss das Wesen der Demokratie sein. Die gewählten Politiker müssen belangt werden können, wenn sie das Versprechen, das sie dem Bürger gegeben haben, gebrochen und somit das Vertrauen missbraucht haben. Darum muss es eine Möglichkeit geben, diese Personen aus dem Amt zu entfernen. Bei uns in den USA gibt es dafür den Begriff des Recall oder Impeachment.
Ich werde also das Modell der direkten Demokratie genau studieren. Es geht um die Frage, wie man dieses Modell mit gewissen Abänderungen in anderen Ländern anwenden könnte. Allerdings muss man bei jedem Land seine Historie, seine Kultur, seine Tradition und seine individuellen Vorstellungen des Zusammenlebens berücksichtigen.

Welche Rolle hat für Sie dabei der Nationalstaat?

Genauso wie im antiken Griechenland mit der Polis ein Staat entstanden ist, in dem die Bürger an der Politik teilnehmen konnten, so soll es für die einzelnen Länder auch gelten. Also der Nationalstaat ist bei diesem Vorgang entscheidend. International gesehen möchten wir, dass alle Staaten das Recht haben, gleichwertig und gleichberechtigt die Welt­politik zu gestalten. Aber auch intern, also national gesehen, müssen die Bürger eines bestimmten Staates für die eigene Identität, für die eigene Kultur die für sie richtigen Gesetze annehmen und eine Politik wählen, die die Menschenrechte und die Würde von allen Bürgern gewährt.

Herr Professor de Zayas, wir wünschen Ihnen viel Erfolg bei der Ausgestaltung Ihres Mandats und danken Ihnen herzlich für das Gespräch.    •

Leser werden von Professor de Zayas herzlich gebeten, Ihre Vorstellungen an ie-internationalorder(at)ohchr.org zu verschicken.

mardi, 25 septembre 2012

Aux sources du parti conservateur

Jean-Gilles MALLIARAKIS:

Aux sources du parti conservateur

Ex: http://www.insolent.fr/

120919Comme dans bien d'autres pays, la droite en Angleterre a été amenée, plusieurs fois dans son Histoire, à devoir renaître de ses cendres. Particularité de la vie politique d'outre Manche, depuis le XVIIIe siècle ce fut le même parti, les "tories" étant devenus officiellement "parti conservateur", qui sut opérer en son sein le renouvellement nécessaire.

Cette droite avait su se maintenir face aux "whigs", organisateurs de la Glorieuse Révolution de 1688, puis de l'arrivée de la dynastie de Hanovre en 1714. Elle avait su faire face à ces adversaires "de gauche", qui dominèrent le parlement et le gouvernement tout au long du XVIIIe siècle. Et elle les a aujourd'hui encore surclassés.

Agréablement traduit, et réédité par les peines et soins des Éditions du Trident, le roman de Disraëli "Coningsby" nous en livre le secret.

Le rejet des horreurs de ce que nous appelons jacobinisme a toujours joué, à cet égard, le rôle central.

Cependant on doit mesurer d'abord, que les forces qui, en Grande Bretagne se sont opposées à la Révolution française, ne venaient pas toutes du conservatisme "officiel" et "historique".

Deux exemples l'illustrent. Leurs noms sont relativement connus, de ce côté-ci de la Manche, leur histoire l'est un peu moins.

Ainsi Edmund Burke (1729-1797) avait-il pris conscience, dès les journées d'octobre 1789, de la nature inacceptable de ce qui s'installait à Paris. Dans ses "Réflexions sur la révolution de France", publiées en 1790 (1)⇓ il dénonce avec lucidité la logique implacable des événements.

Or, il avait siégé aux Communes depuis 1765 en tant que "whig". Il avait soutenu les "insurgents" américains, etc. Il ne rompra officiellement avec son parti, dont il refuse les subsides, qu'en juin 1791. Dès lors, ce "vieux-whig" sera considéré plus tard comme le doctrinaire par excellence du conservatisme.

De même William Pitt "le Jeune", est présenté aujourd'hui, jusque sur le site officiel du 10 Downing Street, sous l'étiquette "tory". Mais celui qu'en France nous l'appelons "le second Pitt" était lui-même le fils d'un chef de gouvernement whig, William Pitt dit "l'Ancien". À son tour il devint Premier ministre sous le règne de George III, de 1782 à 1801, puis de 1804 à 1806. La mémoire républicaine l'exècre comme l'ennemi par excellence. La propagande des hommes de la Terreur désignait tous ses adversaires comme agents de "Pitt et Cobourg". (2)⇓

En fait il n'entra dans le conflit que contraint et forcé. Au départ, au cours des années 1780, cet adepte d'Adam Smith (3)⇓ poursuivait le but d'assainir les finances et de développer l'économie du pays. Quand il rompit avec la France révolutionnaire, le cabinet de Londres pensait que le conflit serait rapidement liquidé. On n'imaginait pas qu'il durerait plus de 20 ans.

Ainsi Pitt fut contraint à la guerre à partir de 1793 et la mena jusqu'à sa mort. Une partie de l'opinion anglaise, et particulièrement les "whigs" avaient applaudi aux événements de 1789. Mais c'est au lendemain de la mort du Roi que l'ensemble de l'opinion comprit que les accords resteraient impossibles avec les forces barbares qui s'étaient emparées du royaume des Lys. Dès le 24 janvier 1793, l'ambassadeur officieux (4)⇓ de la République est expulsé.

Voici donc un adversaire irréductible (5)⇓ de la Révolution française : doit-on le considérer comme un conservateur ? Le terme peut paraître encore prématuré. Et Jacques Chastenet souligne même que jamais au cours de sa carrière William Pitt ne s'est déclaré "tory". (6)⇓

Après 1815 les forces de droite s'étaient agrégées autour du vainqueur militaire de Napoléon (7)⇓ à Waterloo, Arthur de Wellesley devenu duc de Wellington. Son nom rassembleur tient lieu de programme. (8)⇓

Or, à partir des années 1830 tout change. Wellington ne reviendra plus, que d'une manière très brève, qui se traduira par un échec. Car quand, laminés en 1832 les tories tentent en 1834 un nouveau "manifeste" [Disraëli qualifie celui-ci de "Manifeste sans principes"], ils vont certes réapparaître techniquement, du seul fait de l'incompétence des whigs. Robert Peel pourra former un gouvernement minoritaire avec l'appui du roi. Mais la "Nouvelle Génération", [c'est le thème de "Coningsby"] cette "Jeune Angleterre" dont Disraëli et son ami Georges Smythe apparaîtront alors comme les figures de proue, considère, et le programme de 1834, et Robert Peele, lui-même comme dénués de principes et voués à l'échec.

Voici comment il les décrit :

"Cet homme politique éminent [Robert Peel] s’était malheureusement identifié, au début de sa carrière, avec un groupe qui, s’affublant du nom de tory, poursuivait une politique sans principes ou dont les principes s’opposaient radicalement à ceux qui guidèrent toujours les grands chefs de cet illustre et historique mouvement. Les principaux membres de cette confédération officielle ne se distinguaient par aucune des qualités propres à un homme d’État, par aucun des dons divins qui gouvernent les assemblées et mènent les conseils. Ils ne possédaient ni les qualités de l’orateur, ni les pensées profondes, ni l’aptitude aux trouvailles heureuses, ni la pénétration et la sagacité de l’esprit. Leurs vues politiques étaient pauvres et limitées. Toute leur énergie, ils la consacraient à s’efforcer d’acquérir une connaissance des affaires étrangères qui demeura pourtant inexacte et confuse ; ils étaient aussi mal documentés sur l’état réel de leur propre pays que les sauvages le sont sur la probabilité d’une éclipse." (9)⇓

[Il s'agit de la droite anglaise d'alors, qu'alliez-vous croire ?]

Jusque-là les deux partis dominants avaient représenté des factions parlementaires, elles-mêmes issues des forces sociales qui contrôlaient les sièges, en particulier ceux des "bourgs pourris. Au total 300 000 électeurs désignaient le parlement. Les Lords dominaient les Communes. Sans évoluer immédiatement vers le suffrage universel la réforme avait supprimé les circonscriptions fictives. Multipliant par trois le nombre des votants, elle allait permettre aux représentants des villes de submerger les défenseurs traditionnels de la propriété foncière et de la campagne anglaise.

Ceux-ci allient donc devoir combattre sous de nouvelles couleurs, en s'alliant avec de nouvelles forces. On peut dire qu'en grande partie Disraëli les ré-inventa. Exprimant ses idées dans des romans, ce vrai fondateur de la droite anglaise conte cette aventure dans ce "Coningsby".

Beaucoup de traits de cette société peuvent paraître désuets. On les découvre dès lors avec une pointe de nostalgie. Mais, une fois dégagé de cet aspect pittoresque et charmant, tout le reste s'en révèle furieusement actuel. Nous laissons à nos lecteurs le soin de le découvrir.

JG Malliarakis
        
Apostilles

  1. Traduites en France ses "Réflexions sur la révolution de France" sont disponibles en collection Pluriel.
  2. Cobourg : il s'agissait du prince Frédéric de Saxe-Cobourg-Saalfeld (1737-1815), général au service du Saint-Empire.
  3. Écrite dans les années 1760, son "Enquête sur la nature et les causes de la Richesse des nations" fut publiée en Angleterre en 1776.
  4. Le roi ne voulait pas reconnaître le régime institué à Paris par le coup de force républicain de septembre 1792. Mais les dirigeants révolutionnaires n'étaient en guerre, au départ, qu'avec l'Empire, "le roi de Bohème et de Hongrie". À Londres se trouvait un ambassadeur, assez maladroit, le jeune François-Bernard de Chauvelin (1766-1832) qui venait d'être nommé par le gouvernement de Louis XVI.
  5. Il la combattra en effet jusqu'à sa mort en 1806. La Paix d'Amiens de 1802 ne fut qu'un intermède (mal négocié) sous le gouvernement Addington (1801-1804) quand Pitt, partisan du droit de vote des catholiques irlandais fut contraint de donner sa démission au roi George III.
  6. cf. Jacques Chastenet "William Pitt" Fayard 1942. On lira avec plaisir de cet auteur oublié mais de qualité son "Wellington" et son "Siècle de Victoria".
  7. Le vrai vainqueur politique de Napoléon avait été lord Castlereagh, ministre des Affaires étrangères, organisateur et financier de la sixième coalition, puis personnage central du congrès de Vienne de 1814-1815.
  8. À la gloire militaire près, le parallèle avec le gaullisme ne manque pas de pertinence. "Le Duc"... "Le Général"...
  9. cf. "Coningsby ou la Nouvelle Génération" page 89. Les lecteurs de L'Insolent peuvent se le procurer, en le commandant
    - directement sur le site des Éditions du Trident
    - ou par correspondance en adressant un chèque de 29 euros aux Éditions du Trident 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris
    - votre libraire peut le commander par fax au 01 47 63 32 04. - téléphone :06 72 87 31 59- courriel  : ed.trident @ europelibre.com

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jeudi, 20 septembre 2012

Unthinking Liberalism: A. Dugin’s The Fourth Political Theory

Unthinking Liberalism:
Alexander Dugin’s The Fourth Political Theory

by Alex KURTAGIC

Ex: http://www.counter-currents.com/

Alexander Dugin
The Fourth Political Theory, London: Arktos, 2012

Arktos recently published what we can only hope will be the first of many more English translations of Alexander Dugin’s work. Head of the sociology department in Moscow State University, and a leading Eurasianist with ties to the Russian military, this man is, today, influencing official Kremlin policy.

The Fourth Political Theory is a thoroughly refreshing monograph, combining clarity of analysis, philosophical rigor, and intellectual creativity. It is Dugin’s attempt to sort through the confusion of modern political theory and establish the foundations for a political philosophy that will decisively challenge the dominant liberal paradigm. It is not, however, a new complete political theory, but rather the beginning of a project. The name is provisional, the theory under construction. Dugin sees this not as the work of one man, but, because difficult, a collective heroic effort.

The book first sets out the historical topology of modern political theories. In Dugin’s account, liberalism, the oldest and most stable ideology, was in modernity the first political theory. Marxism, a critique of liberalism via capitalism, was the second. Fascism/National Socialism, a critique of both liberalism and Marxism, was the third. Dugin says that Fascism/National Socialism was defeated by Marxism (1945), that Marxism was defeated by liberalism (1989), leaving liberalism triumphant and therefore free to expand around the globe.

According to Dugin, the triumph of liberalism has been so definitive, in fact, that in the West it has ceased to be political, or ideological, and become a taken-for-granted practice. Westerners think in liberal terms by default, assuming that no sane, rational, educated person could think differently, accusing dissenters of being ideological, without realizing that their own assumptions have ideological origins.

The definitive triumph of liberalism has also meant that it is now so fully identified with modernity that it is difficult to separate the two, whereas control of modernity was once contested by political theory number one against political theories two and three. The advent of postmodernity, however, has marked the complete exhaustion of liberalism. It has nothing new to say, so it is reduced endlessly to recycle and reiterate itself.

Looking to identify what may be useful to salvage, Dugin proceeds to break down each of the three ideologies into its component parts. In the process of doing so, he detoxifies the two discredited critiques of liberalism, which is necessary to be able to cannibalize them. His analysis of liberalism follows Alain de Benoist. Because it is crucial, I will avail myself of de Benoist’s insights and infuse some of my own in Dugin’s explication of liberalism.

Dugin says that liberalism’s historical subject is the individual. The idea behind liberalism was to “liberate” the individual from everything that was external to him (faith, tradition, authority). Out of this springs the rest: when you get rid of the transcendent, you end up with a world that is entirely rational and material. Happiness then becomes a question of material increase. This leads to productivism and economism, which, when the individual is paramount, demands capitalism. When you get rid of the transcendent, you also eliminate hierarchy: all men become equal. If all men are equal, then what applies to one must apply to all, which means universalism. Similarly, if all men are equal, then all deserve an equal slice of the pie, so full democracy, with universal suffrage, becomes the ideal form of government. Liberalism has since developed flavors, and the idea of liberation acquires two competing meanings: “freedom from,” which in America is embodied by libertarians and the Tea Party; and “freedom to,” embodied by Democrats.

Marxism’s historical subject is class. Marxism is concerned chiefly with critiquing the inequities arising from capitalism. Otherwise, it shares with liberalism an ethos of liberation, a materialist worldview, and an egalitarian morality.

Fascism’s historical subject is the state, and National Socialism’s race. Both critique Marxism’s and liberalism’s materialist worldview and egalitarian morality. Hence, the simultaneous application of hierarchy and socialism.

With all the parts laid out on the table, Dugin then selects what he finds useful and discards the rest. Unsurprisingly, Dugin finds nothing useful in liberalism. The idea is to unthink it, after all.

Spread out across several chapters, Dugin provides a typology of the different factions in the modern political landscape—e.g., fundamental conservatism (traditionalism), Left-wing conservatism (Strasserism, National Bolshevism, Niekisch), conservative revolution (Spengler, Jünger, Schmitt, Niekisch), New Left, National Communism, etc. It is essential that readers understand these so that they may easily recognize them, because doing so will clarify much and help them avoid the errors arising from opaque, confused, contradictory, or misleading labels.

Liberal conservatism is a key category in this typology. It may sound contradictory on the surface, because in colloquial discourse mainstream politics is about the opposition of liberals vs. conservatives. Yet, and as I have repeatedly stated, when one examines their fundamentals, so-called “conservatives” (a misleading label), even palaeoconservatives (another misleading label), are all ideologically liberals, only they wish to conserve liberalism, or go a little slower, or take a few steps back. Hence, the alternative designation for this type: “status-quo conservative.”

Another key category is National Communism. This is, according to Dugin, a unique phenomenon, and enjoys a healthy life in Latin America, suggesting it will be around for some time to come. Evo Morales and Hugo Chavez are contemporary practitioners of National Communism.

Setting out the suggested foundations of a fourth political ideology takes up the rest of Dugin’s book. Besides elements salvaged from earlier critiques of liberalism, Dugin also looks at the debris that in the philosophical contest for modernity was left in the periphery. These are the ideas for which none of the ideologies of modernity have had any use. For Dugin this is essential to an outsider, counter-propositional political theory. He does not state this in as many words, but it should be obvious that if we are to unthink liberalism, then liberalism should find its nemesis unthinkable.

But the process of construction begins, of course, with ontology. Dugin refers to Heidegger’s Dasein. Working from this concept he would like the fourth political theory to conceptualize the world as a pluriverse, with different peoples who have different moralities and even different conceptions of time. In other words, in the fourth political theory the idea of a universal history would be absurd, because time is conceived differently in different cultures—nothing is ahistorical or universal; everything is bound and specific. This would imply a morality of difference, something I have proposed as counter-propositional to the liberal morality of equality. In the last consequence, for Dugin there needs to be also a peculiar ontology of the future. The parts of The Fourth Political Theory dealing with these topics are the most challenging, requiring some grounding in philosophy, but, unsurprisingly, they are also where the pioneering work is being done.

Also pioneering, and presumably more difficult still, is Dugin’s call to “attack the individual.” By this he means, obviously, destabilizing the taken-for-granted construct that comprises the minimum social unit in liberalism—the discrete social atom that acts on the basis of rational self-interest, a construct that should be distinguished from “a man” or “a woman” or “a human.” Dugin makes some suggestions, but these seem nebulous and not very persuasive at this stage. Also, this seems quite a logical necessity within the framework of this project, but Dugin’s seeds will find barren soil in the West, where the individual is almost sacrosanct and where individualism results from what is possibly an evolved bias in Northern European societies, where this trait may have been more adaptive than elsewhere. A cataclysmic event may be required to open up the way for a redefinition of what it is to be a person. Evidently the idea is that the fourth political theory conceptualizes a man not as an “individual” but as something else, presumably as part of a collectivity. This is probably a very Russian way of looking at things.

The foregoing may all seem highly abstract, and I suspect practically minded readers will not take to it. It is hard to see how the abstract theorizing will satisfy the pragmatic Anglo-Saxon, who is suspicious of philosophy generally. (Jonathan Bowden was an oddity in this regard.) Yet there are real-world implications to the theory, and in Dugin’s work the geopolitical dimension must never be kept out of sight.

For Dugin, triumphant liberalism is embodied by Americanism; the United States, through its origins as an Enlightenment project, and through its superpower status in the twentieth and twenty-first century, is the global driver of liberal practice. As such, with the defeat of Marxism, it has created, and sought to perpetuate, a unipolar world defined by American, or Atlanticist, liberal hegemony. Russia has a long anti-Western, anti-liberal tradition, and for Dugin this planetary liberal hegemony is the enemy. Dugin would like the world to be multipolar, with Atlanticism counterbalanced by Eurasianism, and maybe other “isms.” In geopolitics, the need for a fourth political theory arises from a need to keep liberalism permanently challenged, confined to its native hemisphere, and, in a word, out of Russia.

While this dimension exists, and while there may be a certain anti-Americanism in Dugin’s work, Americans should not dismiss this book out of hand, because it is not anti-America. As Michael O’Meara has pointed out in relation to Yockey’s anti-Americanism, Americanism and America, or Americans, are different things and stand often in opposition. Engaging with this kind of oppositional thinking is, then, necessary for Americans. And the reason is this: liberalism served America well for two hundred years, but ideologies have a life-cycle like everything else, and liberalism has by now become hypertrophic and hypertelic; it is, in other words, killing America and, in particular, the European-descended presence in America.

If European-descended Americans are to save themselves, and to continue having a presence in the North American continent, rather than being subsumed by liberal egalitarianism and the consequent economic bankruptcy, Hispanization, and Africanization, the American identity, so tied up with liberalism because of the philosophical bases of its founding documents, would need to be re-imagined. Though admittedly difficult, the modern American identity must be understood as one that is possible out of many. Sources for a re-imagined identity may be found in the archaic substratum permeating the parts of American heritage that preceded systematic liberalism (the early colonial period) as well as in the parts that were, at least for a time, beyond it (the frontier and the Wild West). In other words, the most mystical and also the least “civilized” parts of American history. Yet even this may be problematic, since they were products of late “Faustian” civilization. A descent into barbarism may be in the cards. Only time will tell.

For Westerners in general, Dugin’s project may well prove too radical, even at this late stage in the game—contemplating it would seem first to necessitate a decisive rupture. Unless/until that happens, conservative prescriptions calling for a return to a previous state of affairs (in the West), or a closer reading of the founding documents (in America), will remain a feature of Western dissidence. In other words, even the dissidents will remain conservative restorationists of the classical ideas of the center, or the ideas that led to the center. Truly revolutionary thinking—the re-imagining and reinvention of ourselves—will, however, ultimately come from the periphery rather than the center.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/09/unthinking-liberalism/

mercredi, 19 septembre 2012

G. Faye: The Transitional Program

The Transitional Program

By Michael O'Meara

Ex: http://www.counter-currents.com/

A propos of . . .

Guillaume Faye
Mon Programme: Un programme révolutionnaire ne vise pas à changer les règles du jeu mais à changer de jeu,
Chevaigné: Les Éditions du Lore, 2012

Following quickly on the heels of Sexe et dévoiement [3] (2011), which examined the social-sexual roots of the present European demographic crisis, Faye’s latest is a much different kind of work, addressing quite another, though not entirely unrelated problem.

Theory and Practice

When dealing with political ideas in the largest sense (i.e., as they bear on the life or death of the polis), there comes a time, he argues, when critical and analytical thought, with its commentaries and opinions, has to pass from the abstract to the concrete. The most brilliant medical diagnosis, to give an analogy, is worth little if it does not eventually lead to a curative therapy.

In this vein, his Programme represents an effort to pass from the theoretical to the practical, as it proposes certain concrete policies (political therapies) to treat the ills presently afflicting the French state – and by extension, other European states. The details of this program make little reference to the American situation, but its general principles speak to the malignancy infecting all states of the Americanosphere.

Reform and Revolution

Faye’s program is not, ostensibly, about reforming the existing state. That would only “improve” a political system, whose corruptions, vices, and totalitarian powers are increasing immune to correction. The state’s lack of authority and democratic legitimacy, combined with the entrenchment of the New Class interests controlling it, means that such a system cannot actually be changed in any significant way. Hence the claim of Faye’s subtitle: A revolutionary program (i.e., one that attacks the existing disorder at its roots) “does not aim at changing the rules of the game but at changing the game itself.” The “game” here is the existing political system, which has become an obvious catastrophe for European peoples. For every patriot, this system needs not to be changed, but to be razed and rebuilt – from the ground up and according to an entirely different paradigm.

There is, though, a certain terminological confusion in the way Faye describes his program. He realizes it is something of a pipe dream. No state or party is likely to embrace it — though, of course, this does not lessen the value of its exercise nor does it mean it will not fertilize future projects of a similar sort. We also do not know what is coming and perhaps there will be a moment of breakdown — Joseph Tainter’s “Collapse” — making possible a revolutionary transition. If “we” should ever, then, have the occasion to assume power and restructure the state: how would we go about it?

Faye’s Programme is an effort to start thinking about such an alternative in a situation where a regime-threatening crisis of one sort or another brings a “new majority” to power. He doesn’t specifically spell out what such a crisis might entail, but it is easily imaginable. In 2017, for example, if the present society-destroying problems of unemployment, deindustrialization, massive indebtedness, uncontrolled Third World immigration, etc., are not fixed, and nothing suggests that they will, an anti-system party, like the National Front, could conceivably be voted into power. (Think of what is happening in Greece today.) In such a situation a new majority might submit something like his Programme to a referendum, calling on the “people” to authorize a radical re-structurization of the political system.

I can think of at least two national revolutions that came to power in a similar institutional (legal) way: the Sinn Féin MPs of December 1918 who refused to sit at Westminster and the NSDAP coalition that got a chance to form a government in January 1933.

The Programme anticipates a less catastrophic situation than foreseen in his Convergence des castastrophes (2004) or implied in Avant-Guerre (2002). Perhaps he is suggesting that this scenario is more realistic or likely now; I’m not certain. But it is strange to see so little of his convergence theory — what Tainter calls the ever mounting costliness of complexity — in his program, especially while positing a crisis as the program’s premise.

In any case, his Programme assumes its political remediation is to be administered before the present system collapses, at a moment when a new majority gets a chance to form a government from the debris of the old. For this reason, I think it is better characterized as “transitional” (in the Trotskyist sense).

Unlike a revolutionary program that outlines a strategy for overturning the existing order and seizing state power, a transitional program addresses a crisis in terms of the existing institutional parameters, but does so in ways that reach beyond their limits and are unacceptable to the ruling powers — challenging the system’s logic and thus posing a threat to its “order.” (See Leon Trotsky, The Death Agony of Capitalism and the Tasks of the Fourth International [1938].)

The State

In The Politics, Aristotle conceives of the state almost organically: the head of a body (the polis) — the political system that rules the City and ensures order within its measured boundaries.

In his self-consciously Aristotelian approach — which favors individual liberty, responsibility, hierarchy, and ethno-cultural homogeneity — Faye’s program aims at lessening the state’s costly, inefficient administrative functions, enhancing its sovereign powers, and abandoning its appropriation of functions that properly belong to the family and society.

This entails freeing the French state from the present European Union (whose Orwellian stranglehold on continental life is objectively anti-European). He does not actually advocate withdrawing from it, but rather refusing to cooperate with it until its rules are redesigned and national sovereignty is restored. Given that France is the most politically significant of the European states and is pivotal the EU’s existence, it has the power to force a major revamping of its policies and restore the European Idea that inspired the Treaty of Rome (1958).

If achieved, this restoration of national sovereignty would give the French state the freedom to remodel its institutions — not for the sake of undermining the primacy of the state, as our libertarians would have it, but of excising its cancers and enhancing its “regalian” will to “re-establish, preserve, and develop the identity, the prosperity, the security, and the power of France and Europe.”

Faye is not a traditional French nationalist, but a Europeanist favoring continental unity (an imperial family of nations rather than a global marketplace). He believes both the French state and the EU have a liberal-socialist concept of the political, which makes them unable to distinguish between their friends and enemies — given that the individualist, universalistic, and pluralist postulates of their ideology views the world in market and moralist terms, holding that only individualistic matters of ethics and economics are primary. (In traditional, organic civilizations it is the Holy that is primary.)

A restoration of sovereignty would give the French state the freedom to restructure and rebuild itself.

Globally, he proposes measures that would control the nation’s borders, re-vitalize its national economy, improve its efficiency, reduce its costs, amputate its nomenclature, streamline its functions, and concentrate on the national interest, and not, like now, on the special interests. But there is nothing in the Programme that would mobilize the French themselves for the transition. It is strictly a top-down project that ignores what Patrick Pearse called “the sovereign people,” who are vital to the success of every revolutionary movement.

The state, in any case, is too large — which is true almost everywhere. At its top and bottom: its functions and personnel need to be greatly reduced — cabinet positions should fall to six (Defense, Justice, Foreign Affairs, Interior, Economy, and Instruction/Patrimony) and the number of state functionaries cut by at least 50 percent. Faye’s proposals would remove cumbersome, over-regulating, and counter-productive state agencies for the sake of freeing up funds for more worthwhile investments in the private economy.

Toward these ends, he proposes overturning the anti-democratic role of judges, who in the name of the Constitution thwart the popular will (constitutional questions would be left to the Senate); introducing referendums that give the electorate a greater say in major policy decisions; restoring popular liberties, like the right to free speech; introducing “positive” law that judges the crime and not the criminal; abolishing the privileges of higher state functionaries (now greater than those of the 18th-century aristocracy); and eliminating the present confusion of state powers.

The Economy

In the modern world, the power (in a material sense) of a nation-state is in its economy. (The health and longevity of the nation — in the spiritual sense — is another thing, dependent on its demography, the preservation of it genetic heritage, the quality of its culture, and the culture’s transmission.)

Though conscious of the dangers posed by economism, Faye believes “prosperity” is necessary (though not sufficient) for social harmony and national defense. State and economy for him are different realms, operating according to different logics. But he rejects both the Marxist contention that the state’s political economy can do anything it wishes in the market and the liberal-conservative position that it can do nothing. Straddling the two, he advocates a political economy whose guiding principles are non-ideological and pragmatic. “What counts is what works — not what conforms to a dogma.” Sound economic practice is based on experience, not theory.

The great financial crisis of 2008, whose ravages are still evident, was not, he claims, a crisis of capitalism, but a crisis of the welfare-state — and thus a crisis of “statism” (étatisme). The crippling state debt allegedly at the root of this crisis stems, he argues, from the state’s profligate spending, its ever-growing number of functionaries, its bureaucratic mismanagement and cronyism, and its unsupportable social charges, like the Afro-Arab hordes occupying its banlieues. Left-wing talk of ultra-liberalism is delusional in economic systems as regulated as those of Europe. In living beyond its means, the state has acquired debts it cannot afford and now blames it on others.

Faye dismisses those who claim the crisis was created by a conspiracy of banksters and vampire capitalists. Targeting solely the failures of the present political system, he does not see or think it is important that there is something of a revolving door (perhaps greater in the US than France) between the state and the corporations, that the crimes of the money powers are intricately linked to state policies, and thus that the economic interests have a corrupting and distorting effect on the state.

In his anti-Marxism, Faye is wont to stress the primacy of the “superstructure,” rather than the economic “base” (which, most of the time, is probably a reliable rule of thumb). Similarly, he does not relate the current crisis to globalization, which has everywhere undermined the existing models of governance, nor does he consider the often nefarious role played by the IMF, the WTO, and the new global oligarchs.

He blames the crisis solely on the state’s incompetent and spendthrift policies, leaving blameless the money-lenders and criminals, whose bail-out caused the national debt to escalate beyond any imaginable repayment. The state may be primary to a people’s existence, but in the neo-liberal regimes of the West, it is clearly attentive, if not subordinated to the dominant economic interests. The two (state and economy) seem hardly understandable today except in relation to one another — though he wants us to believe the cause of the crisis was purely political. (In my mind, it is civilizational.)

In any case, the French state is over-administrated, “socialist” in effect; it has too many workers (almost 25 percent of the workforce); it pursues social-engineering domestically and economy-destroying free-trade policies internationally, the most self-destroying policies conceivable. Given capitalism’s quantitative logic, its globalist free-trade policies are also destroying Europe’s ability to compete with low-wage Third World economies, like China, and are thus devastating the productive capacity of its economies.

France and Europe, Faye argues, need to protect themselves from the ravages of global free trade by creating a Eurasian autarkic economic zone, from Galway to Vladivostok (what he once called “Eurosiberia,” though there’s no mention of it), and at the same time by liberalizing the domestic economy, throwing off excessive regulations and social charges for the sake of unleashing European initiative and enterprise. He calls thus for changes in the EU that focus on stimulating the European market rather than allowing it to succumb to America’s global market, which is turning the continent’s advanced economies into financialized and tertiarized economies, unable to provide decent paying jobs. The emphasis of his program is thus on national economic growth.

The present policy of budget austerity, he argues, is compounding the crisis, causing state revenues to decline and forcing the economy into depression. Growth alone will generate the wealth needed to get out of debt. To this end, the state needs to radically cut costs, but do so without imposing austerity measures. This entails not just simplifying and rationalizing public functions, but changing the paradigm. The state should not, therefore, indiscriminately reduce public expenses, but rather suppress useless, unproductive charges, while augmenting wealth-creating ones.

Basically, he wants the state to withdraw from the economy, but without abandoning its role in protecting the public and national interests. For those key sectors vital to the nation’s economy and security — energy, armaments, aerospace, and high tech — the state should exercise a certain strategic control over them, but without interfering in their management.

He also calls for a tax revolution that will unburden the middle class, while expanding the tax base. Similarly, he wants the state to encourage enterprise by relieving business of costly social charges, especially on small and middle-size enterprises that create employment; he wants the French to work more — increasing the workweek from 35 hours to 40, and decreasing annual vacations from five weeks to four; he wants a liberalization of the labor market, with a system of national preferences favoring French workers over immigrants; he wants a different system of unemployment benefits that encourages work and rationalizes job placements; he wants a cap on executive salaries and an end to golden parachutes; and he wants state subventions of public worker unions discontinued, along with their right to strike.

As a general principle, he claims the state should not grant rights it cannot afford, that those who can work should, that foreigners have no right to public services (including education), that quotas imposing artificial forms of sexual and racial equality are intolerable, and that only natives unable to work should be entitled to assistance. Social justice, he observes, is not a matter of socialist redistribution, but of a system whose pragmatic efficiencies and competitive industries are able to provide for the nation’s needs. There are, however, no proposals in his program for re-industrialization, state economic planning, or an alternative form of economy based on something other than capitalism’s incessant need to grow and consume.

Closely related to the country’s economic problems is that of the state’s failed politique familiale. The state needs to adopt measures to offset the social problems created by explosive divorce rates and non-reproducing birthrates. The aging of the population is also going to require increased medical services, which need to be expanded and improved.

As for the rising generation, he calls for a revamping of the national education system, which has become a “cretin-producing factory.” France’s Third Republic had one of the finest educational systems in the world, that of the Fifth Republic has been an utter disaster, due largely to Left-wing egalitarian policies catering to the lowest common denominator (the Barbarians at the Gates). The state, moreover, has no right to ‘educate’ youth — that is the role of the family (and, I would add, the Church). The state should instead provide schools that instruct — that convey knowledge and its methods — not inculcate the reigning Left ideologies. Discipline must also be restored; all violence and disorder in schools must be severely punished. Immigrants and non-natives ought to be excluded. Obligatory schooling should end at age 14, and a system of apprenticeship (like in Germany) should be made available to those who do not pursue academic degrees.

The universities also need to be revamped, with more rigorous forms of instruction, dress codes, tracking, and the elimination of such frivolous disciplines as psychology, sociology, communications, business, etc.

There are, though, no proposed measures in his program to strengthen the nation’s ethno-cultural identity, resist the audio-visual imperialism of America’s entertainment industry, or outlaw the NGOs funded by the CIA.

Immigration

The present soft-totalitarian ideology of the French state, like states throughout the Americanosphere, portrays immigration as an “enrichment,” though obviously it is everywhere and in all ways a disaster, threatening the nation’s ethnic fundament, its way of life, and its cultural integrity. Immigration is also code for Third World colonization and Islamization.

Against those claiming it is impossible to stem the immigrant tide, Faye contends that what is needed is a will to do so — a will to eliminate the “pull” factors (like welfare) that attract the immigrant invaders. He proposes zero immigration, the deportation of illegals, the expulsion of unemployed legal ones, the end to family regroupments, the strict policing of student and tourist visas, the abolition of exile rights, visa controls on international transportation links, the elimination of state-funded social assistance to foreigners, national preference in employment, and the replacement of jus soli by jus sanguinis.

Given that Muslims are a special threat, Faye proposes abolishing all state-supported Muslim associations, prohibiting mosque building and halal practices, imposing heavy fines on veiled women, eliminating Muslim chaplains from the military and the prison system, and implementing a general policy of restrictive legislation toward Islam. Surprisingly, he proposes no measures to break up the non-European ghettos presently sponging off French tax-payers and constituting a highly destabilizing factor within the body politic (perhaps because the above measures would prevent these ghettos from continuing to exist).

Even these relatively moderate measures, he realizes, are likely to stir up trouble, for every positive action inevitably comes with its negative effects. But unless measures aimed at stopping the “pull” factors promoting the immigrant invasion are taken, Faye warns, it may be too late for France, in which case more drastic measures will have to be taken later — and Plan B will have no pity.

The World

The state’s defense of the nation and its relationship with other states are two of its defining functions.

To those familiar with Faye’s earlier thoughts on these subjects, they will find the same general orientation — a rejection of Atlanticism, a realignment with Russia, neutrality to the US, withdrawal from the Third World, and an armed vigilance toward Islam. His stance on NATO, the US, and Russia, though, is more “moderate” than those taken in the past.

The Programme depicts the present EU as objectively anti-European, but does not call for an outright withdrawal from it. It similarly recognizes that NATO subordinates Europe to America’s destructive crusades and alliances (impinging on the basic principle of sovereignty: the right to declare war) and again does not call for a withdrawal, only a strategy to diminish its significance. And, finally, though he thinks Russia should be the axis of French policy (which is indeed her only viable geopolitical option), there is little in his program that would advance the prospects of such a realignment or re-align France against the surreptitious war of encirclement presently being waged by the US against Russia. There is also nothing on the present “unipolar-to-multipolar phase” of international politics, brought on by America’s imperial decline — as it goes about threatening war and international havoc, all the while supremely indifferent to the collapse of its own economic fundamentals. On these key policies related to France’s position in the world, he stands to the “right” of Marine Le Pen.

Faye’s program aims at restoring French sovereignty, but, as suggested, on issues relevant to its restoration, his position would greatly modify France’s submission to the anti-sovereign powers, not break with them. At the root of this apparent irresolution, I suspect, is his understanding of Islam. Faye has long designated it as Europe’s principal enemy. And there is no question that Islam, as a civilization, is objectively and threateningly anti-European, and that Muslim immigrants pose a dire threat to France’s future.

But his half-right position has taken him down a wayward path: to an alliance with Islam’s great enemy, Israel, and to an accommodation with Israel’s Guardian Angel, the United States, the world’s foremost anti-white power. For it is the American system (in arming and abetting jihadists to destabilize regimes it seeks to control) that has made Islam such a world threat and it is the American system (in the blight of its leveling commercialism and the poisonous vapors of its human rights ideology) that poses the greatest, most profound threat to European existence.

Faye’s questionable position on these issues seems, more generally, to come from ignoring the nature of the post-1945 nomos imposed by New York-Washington on defeated Europe and the rest of the non-Communist world after the Second World War. America has always had an ambivalent relationship to Europe — being both an offshoot of European Christian civilization and a Puritan (in effect, Bolshevik) opponent of it. Since the end of the last world war — when it formally threw off the Christian moral foundations of the last thousand years of European civilization by morally sanctioning “the destruction of residential areas and the mass killing of civilians as a routine method of warfare” — a new counter-civilization, an empire of liberty and chaos, has come to rule the world (even if during the 45 years of the Cold War the US encouraged the illusion that it was a bastion of Western values and Christianity). (See Desmond Fennell, The Postwestern Condition: Between Chaos and Civilization [1999]; Carl Schmitt, The Nomos of the Earth [1950/2003].)

Not just the devastated Germans and Italians, but all Europeans were subsequently integrated into the predatory empire of this counter-civilization — and subjected to its transvaluation of values (consumerism, permissiveness, abortion, the elimination of sex differences, the death of God, the end of art, anti-racism, and the “newspeak” whose inversions hold that “war is peace,” “dictatorship is democracy,” “ignorance is culture,” etc.). European elites have since become not just a comprador bourgeoisie, but home-grown exemplars of the moral and cultural void (the Thanatos principles) animating the American system. It is this system and its poisons that have made Europeans indifferent to their survival as a people and accounts for the increasing dysfunctionality of their established institutions — not the mass influx of Third World immigrants, who are a (prominent and very unpleasant) symptom, though not the source, of the reigning inversions.

Without acknowledging this, Faye can argue that America is only an adversary of Europe — a power that might exploit Europeans, but not one posing a life and death threat to their existence, like a true enemy. He forgets, accordingly, that America and America’s special friend, Britain, rather consciously destroyed historic Europe — that civilization born from the “medieval” alliance of Charlemagne and the Papacy. In the course of its anti-fascist crusade, the imperial leviathan headquartered in New York-Washington threw off the values and forms of Europe’s ancient and venerable Christian civilization for ones based on the sanctioning of mass murder.

Such premises have since inspired on-going campaigns “to abolish and demolish and derange” the world. It is this system that endangers white people today — for it wars on everything refusing to bend to its “liberal democratic” (i.e., money-driven) colonization, standardization, and demeaning of private and social life — as it breaks up traditional communities, isolates the individual within an increasingly indifferent “global world” dismissive of history, culture, and nature, rejects historically and religiously established sources of meaning, and leaves in their stead innumerable worthless consumer items and a whorl of fabricated electronic simulacra that situate all life within its hyperreal bubble. Even in an indirect or transitional way, Faye does not address this most eminent of the anti-European forces, offering no real alternative to the US/EU consumer paradise, whose present breakdown will be recuperated only by a resistance whose political vision transcends the underlying tenets of the existing one.

Conclusion

As an exercise, Faye’s Programme displays much of its author’s characteristic intelligence and creativity, and it stands as a respectable complement to the numerous interpretative and analytical works he has written on various aspects of European life over the last decade and a half — works written with verve and an imagination rich in imagery, lucidity, and urgency. As a brief programmatic redefinition of the French state system, his program is, admittedly, impressive. It is not, however, revolutionary. In some respects, it is not transitional. Above all, it does not get at the roots of the existing disorder: the satanic system that is presently destroying both Europe and the remnants of European civilization in America.

If Faye continues to speak for the rising forces of European identitarianism and populism, he will need to invent a better “game” than his program — for what seems most needed in this period of transition is a worldview premised on the overthrow of the existing nomos.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/08/the-transitional-program/

samedi, 15 septembre 2012

Aleksandr Dugin: Liberalism, Communism, Fascism, and the Fourth Political Theory

Aleksandr Dugin: Liberalism, Communism, Fascism, and the Fourth Political Theory

jeudi, 12 juillet 2012

Modernità totalitaria

Modernità totalitaria

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Augusto Del Noce individuò precocemente la diversità dei regimi a partito unico del Novecento, rispetto al liberalismo, nella loro natura “religiosa” e fortemente comunitaria. Vere religioni apocalittiche, ideologie fideistiche della redenzione popolare, neo-gnosticismi basati sulla realizzazione in terra del Millennio. Questa la sostanza più interna di quei movimenti, che in tempi e modi diversi lanciarono la sfida all’individualismo laico e borghese. Fascismo, nazionalsocialismo e comunismo furono uniti dalla concezione “totalitaria” della partecipazione politica: la sfera del privato andava tendenzialmente verso un progressivo restringimento, a favore della dimensione pubblica, politica appunto. E nella sua Nuova scienza della politica, Voegelin già nel 1939 accentrò il suo sguardo proprio su questo enigmatico riermergere dalle viscere dell’Europa di una sua antica vocazione: concepire l’uomo come zoòn politikòn, animale politico, che vive la dimensione dell’agorà, della assemblea politica, come la vera espressione dell’essere uomo. Un uomo votato alla vita di comunità, al legame, alla reciprocità, al solidarismo sociale, più di quanto non fosse incline al soddisfacimento dei suoi bisogni privati e personali.

 

 

Lo studio del Fascismo partendo da queste sue profonde caratteristiche sta ormai soppiantando le obsolete interpretazioni economiciste e sociologiche che avevano dominato nei decenni scorsi, inadatte a capire un fenomeno tanto variegato e composito, ma soprattutto tanto “subliminale” e agente negli immaginari della cultura popolare. In questo senso, la categoria “totalitarismo”, sotto la quale Hannah Arendt aveva a suo tempo collocato il nazismo e il comunismo, ma non il Fascismo (in virtù dell’assenza in quest’ultimo di un apparato di violenta repressione di massa), viene recuperata con altri risvolti: anche il Fascismo ebbe un suo aspetto “totalitario”, chiamò se stesso con questo termine, aspirò a una sua “totalità”, ma semplicemente volendo significare che il suo era un modello di coinvolgimento totale, una mobilitazione di tutte le energie nazionali, una generale chiamata a raccolta di tutto il popolo nel progetto di edificazione dello Stato Nuovo. Il totalitarismo fascista, insomma, non tanto come sistema repressivo e come organizzazione dello Stato di polizia, ma come sistema di aggregazione totale di tutti in tutte le sfere dell’esistenza, dal lavoro al tempo libero, dall’arte alla cultura. Il totalitarismo fascista non come arma di coercizione capillare, ma come macchina di conquista e promozione di un consenso che si voleva non passivo e inerte, ma attivo e convinto.

 

Un’analisi di questi aspetti viene ora effettuata dal libro curato da Emilio Gentile Modernità totalitaria. Il fascismo italiano (Laterza), in cui vari autori affrontano il tema da più prospettive: la religione politica, gli stili estetici, la divulgazione popolare, l’architettura, i rituali del Regime. Pur negli ondeggiamenti interpretativi, se ne ricava il quadro di un Fascismo che non solo non fu uno strumento reazionario in mano agli agenti politici oscurantisti dell’epoca, ma proprio al contrario fu l’espressione più tipica della modernità, manifestando certo anche talune disfunzioni legate alla società di massa, ma – all’opposto del liberalismo – cercando anche di temperarle costruendo un tessuto sociale solidarista che risultasse, per quanto possibile nell’era industriale e tecnologica, a misura d’uomo.

 

Diciamo subito che l’indagine svolta da Mauro Canali, uno degli autori del libro in parola, circa le tecniche repressive attuate dal Regime nei confronti degli oppositori politici, non ci convince. Si dice che anche il Fascismo eresse apparati atti alla denuncia, alla sorveglianza delle persone, alla creazione di uno stato di sospetto diffuso. Che fu dunque meno “morbido” di quanto generalmente si pensi.

 

E si citano organismi come la mitica “Ceka” (la cui esistenza nel ‘23-’24 non è neppure storicamente accertata), la staraciana “Organizzazione capillare” del ‘35-’36, il rafforzamento della Polizia di Stato, la figura effimera dei “prefetti volanti”, quella dei “fiduciari”, che insieme alle leggi “fascistissime” del ‘25-’26 avrebbero costituito altrettanti momenti di aperta oppure occulta coercizione. Vorremmo sapere se, ad esempio, la struttura di polizia degli Stati Uniti – in cui per altro la pena capitale viene attuata ancora oggi in misura non paragonabile a quella ristretta a pochissimi casi estremi durante i vent’anni di Fascismo – non sia molto più efficiente e invasiva di quanto lo sia stata quella fascista. Che, a cominciare dal suo capo Bocchini, elemento di formazione moderata e “giolittiana”, rimase fino alla fine in gran parte liberale. C’erano i “fiduciari”, che sorvegliavano sul comportamento politico della gente? Ma perchè, oggi non sorgono come funghi “comitati di vigilanza antifascista” non appena viene detta una sola parola che vada oltre il seminato? E non vengono svolte campagne di intimidazione giornalistica e televisiva nei confronti di chi, per qualche ragione, non accetta il sistema liberaldemocratico? E non si attuano politiche di pubblica denuncia e di violenta repressione nei confronti del semplice reato di opinione, su temi considerati a priori indiscutibili? E non esistono forse leggi europee che mandano in galera chi la pensa diversamente dal potere su certi temi?

 

Il totalitarismo fascista non va cercato nella tecnica di repressione, che in varia misura appartiene alla logica stessa di qualsiasi Stato che ci tenga alla propria esistenza. Vogliamo ricordare che anche di recente si è parlato di “totalitarismo” precisamente a proposito della società liberaldemocratica. Ad esempio, nel libro curato da Massimo Recalcati Forme contemporanee di totalitarismo (Bollati Boringhieri), si afferma apertamente l’esistenza del binomio «potere e terrore» che domina la società globalizzata. Una struttura di potere che dispone di tecniche di dominazione psico-fisica di straordinaria efficienza. Si scrive in proposito che la società liberaldemocratica globalizzata della nostra epoca è «caratterizzata da un orizzonte inedito che unisce una tendenza totalitaria – universalista appunto – con la polverizzzazione relativistica dell’Uno». Il dominio oligarchico liberale di fatto non ha nulla da invidiare agli strumenti repressivi di massa dei regimi “totalitari” storici, attuando anzi metodi di controllo-repressione che, più soft all’apparenza, si rivelano nei fatti di superiore tenuta. Quando si richiama l’attenzione sull’esistenza odierna di un «totalitarismo postideologico nelle società a capitalismo avanzato», sulla materializzazione disumanizzante della vita, sullo sfaldamento dei rapporti sociali a favore di quelli economici, si traccia il profilo di un totalitarismo organizzato in modo formidabile, che è in piena espansione ed entra nelle case e nel cervello degli uomini con metodi “terroristici” per lo più inavvertiti, ma di straordinaria resa pratica. Poche società – ivi comprese quelle totalitarie storiche –, una volta esaminate nei loro reali organigrammi, presentano un “modello unico”, un “pensiero unico”, un’assenza di controculture e di antagonismi politici, come la presente società liberale. La schiavizzazione psicologica al modello del profitto e l’obbligatoria sudditanza agli articoli della fede “democratica” attuano tali bombardamenti mass-mediatici e tali intimidazioni nei confronti dei comportamenti devianti, che al confronto le pratiche fasciste di isolamento dell’oppositore – si pensi al blandissimo regime del “confino di polizia” – appaiono bonari e paternalistici ammonimenti di epoche arcaiche.

 

Il totalitarismo fascista fu altra cosa. Fu la volontà di creare una nuova civiltà non di vertice ed oligarchica, ma col sostegno attivo e convinto tanto delle avanguardie politiche e culturali, quanto di masse fortemente organizzate e politicizzate. Si può parlare, in proposito, di un popolo italiano soltanto dopo la “nazionalizzazione” effettuata dal Fascismo. Il quale, bene o male, prese masse relegate nell’indigenza, nell’ignoranza secolare, nell’abbandono sociale e culturale, le strappò al loro miserabile isolamento, le acculturò, le vestì, le fece viaggiare per l’Italia, le mise a contatto con realtà sino ad allora ignorate – partecipazione a eventi comuni di ogni tipo, vacanze, sussidi materiali, protezione del lavoro, diritti sociali, garanzie sanitarie… – dando loro un orgoglio, fecendole sentire protagoniste, elevandole alla fine addirittura al rango di “stirpe dominatrice”. E imprimendo la forte sensazione di partecipare attivamente a eventi di portata mondiale e di poter decidere sul proprio destino… Questo è il totalitarismo fascista. Attraverso il Partito e le sue numerose organizzazioni, di una plebe semimedievale – come ormai riconosce la storiografia – si riuscì a fare in qualche anno, e per la prima volta nella storia d’Italia, un popolo moderno, messo a contatto con tutti gli aspetti della modernità e della tecnica, dai treni popolari alla radio, dall’auto “Balilla” al cinema.

 

Ecco dunque che il totalitarismo fascista appare di una specie tutta sua. Lungi dall’essere uno Stato di polizia, il Regime non fece che allargare alla totalità del popolo i suoi miti fondanti, le sue liturgie politiche, il suo messaggio di civiltà, il suo italianismo, la sua vena sociale: tutte cose che rimasero inalterate, ed anzi potenziate, rispetto a quando erano appannaggio del primo Fascismo minoritario, quello movimentista e squadrista. Giustamente scrive Emily Braun, collaboratrice del libro sopra segnalato, che il Fascismo fornì nel campo artistico l’esempio tipico della sua specie particolare di totalitarismo. Non vi fu mai un’arte “di Stato”. Quanti si occuparono di politica delle arti (nomi di straordinaria importanza a livello europeo: Marinetti, Sironi, la Sarfatti, Soffici, Bottai…) capirono «che l’estetica non poteva essere né imposta né standardizzata… il fascismo italiano utilizzava forme d’arte modernista, il che implica l’arte di avanguardia». Ma non ci fu un potere arcigno che obbligasse a seguire un cliché preconfezionato. Lo stile “mussoliniano” e imperiale si impose per impulso non del vertice politico, ma degli stessi protagonisti, «poiché gli artisti di regime più affermati erano fascisti convinti».

 

Queste cose oggi possono finalmente esser dette apertamente, senza timore di quella vecchia censura storiografica, che è stata per decenni l’esatto corrispettivo delle censure del tempo fascista. Le quali ultime, tuttavia, operarono in un clima di perenne tensione ideologica, di crisi mondiali, di catastrofi economiche, di guerre e rivoluzioni, e non di pacifica “democrazia”. Se dunque vi fu un totalitarismo fascista, esso è da inserire, come scrive Emilio Gentile, nel quadro dell’«eclettismo dello spirito» propugnato da Mussolini, che andava oltre l’ideologia, veicolando una visione del mondo totale.

 

* * *

 

Tratto da Linea del 27 marzo 2009.

 

The Fourth Political Theory

 
Het boek wordt voorgesteld op 28 juli 2012 in Stockholm (voor Europa) en in Brazilië (voor het Amerikaanse continent).
 
 
Table of Contents:

A Note from the Editor
Foreword by Alain Soral
Introduction: To Be or Not to Be?

1. The Birth of the Concept
2. Dasein as an Actor
3. The Critique of Monotonic Processes
4. The Reversibility of Time
5. Global Transition and its Enemies
6. Conservatism and Postmodernity
7. ‘Civilisation’ as an Ideological Concept
8. The Transformation of the Left in the Twenty-first Century
9. Liberalism and Its Metamorphoses
10. The Ontology of the Future
11. The New Political Anthropology
12. Fourth Political Practice
13. Gender in the Fourth Political Theory
14. Against the Postmodern World
Appendix I: Political Post-Anthropology
Appendix II: The Metaphysics of Chaos

mercredi, 11 juillet 2012

Fascism, Anti-Fascism, and the Welfare State

Fascism, Anti-Fascism, and the Welfare State

Paul Gottfried

mercredi, 04 juillet 2012

Introduction to Aristotle’s Politics

Introduction to Aristotle’s Politics
Part 1: The Aim & Elements of Politics

Posted By Greg Johnson

Part 1 of 2

Author’s Note:

The following introduction to Aristotle’s Politics focuses on the issues of freedom and popular government. It is a reworking of a more “academic” text penned in 2001.

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1. The Necessity of Politics

Aristotle is famous for holding that man is by nature a political animal. But what does this mean? Aristotle explains that,

even when human beings are not in need of each other’s help, they have no less desire to live together, though it is also true that the common advantage draws them into union insofar as noble living is something they each partake of. So this above all is the end, whether for everyone in common or for each singly (Politics 3.6, 1278b19–22).[1]

Here Aristotle contrasts two different needs of the human soul that give rise to different forms of community, one pre-political and the other political.

The first need is material. On this account, men form communities to secure the necessities of life. Because few are capable of fulfilling all their needs alone, material self-interest forces them to co-operate, each developing his particular talents and trading his products with others. The classical example of such a community is the “city of pigs” in the second book of Plato’s Republic.

The second need is spiritual. Even in the absence of material need, human beings will form communities because only through community can man satisfy his spiritual need to live nobly, i.e., to achieve eudaimonia, happiness or well-being, which Aristotle defines as a life of unimpeded virtuous activity.

Aristotle holds that the forms of association which arise from material needs are pre-political. These include the family, the master-slave relationship, the village, the market, and alliances for mutual defense. With the exception of the master-slave relationship, the pre-political realm could be organized on purely libertarian, capitalist principles. Individual rights and private property could allow individuals to associate and disassociate freely by means of persuasion and trade, according to their own determination of their interests.

But in Politics 3.9, Aristotle denies that the realm of material needs, whether organized on libertarian or non-libertarian lines, could ever fully satisfy man’s spiritual need for happiness: “It is not the case . . . that people come together for the sake of life alone, but rather for the sake of living well” (1280a31), and “the political community must be set down as existing for the sake of noble deeds and not merely for living together” (1281a2). Aristotle’s clearest repudiation of any minimalistic form of liberalism is the following passage:

Nor do people come together for the sake of an alliance to prevent themselves from being wronged by anyone, nor again for purposes of mutual exchange and mutual utility. Otherwise the Etruscans and Carthaginians and all those who have treaties with each other would be citizens of one city. . . . [But they are not] concerned about what each other’s character should be, not even with the aim of preventing anyone subject to the agreements from becoming unjust or acquiring a single depraved habit. They are concerned only that they should not do any wrong to each other. But all those who are concerned about a good state of law concentrate their attention on political virtue and vice, from which it is manifest that the city truly and not verbally so called must make virtue its care. (1280a34–b7)

Aristotle does not disdain mutual exchange and mutual protection. But he thinks that the state must do more. It must concern itself with the character of the citizen; it must encourage virtue and discourage vice.

But why does Aristotle think that the pursuit of virtue is political at all, much less the defining characteristic of the political? Why does he reject the liberal principle that whether and how men pursue virtue is an ineluctably private choice? The ultimate anthropological foundation of Aristotelian political science is man’s neoteny. Many animals can fend for themselves as soon as they are born. But man is born radically immature and incapable of living on his own. We need many years of care and education. Nature does not give us the ability to survive, much less flourish. But she gives us the ability to acquire the ability. Skills are acquired abilities to live. Virtue is the acquired ability to live well. The best way to acquire virtue is not through trial and error, but through education, which allows us to benefit from the trials and avoid the errors of others. Fortune permitting, if we act virtuously, we will live well.

Liberals often claim that freedom of choice is a necessary condition of virtue. We can receive no moral credit for a virtue which is not freely chosen but is instead forced upon us. Aristotle, however, holds that force is a necessary condition of virtue. Aristotle may have defined man as the rational animal, but unlike the Sophists of his day he did not think that rational persuasion is sufficient to instill virtue:

. . . if reasoned words were sufficient by themselves to make us decent, they would, to follow a remark of Theognis, justly carry off many and great rewards, and the thing to do would be to provide them. But, as it is, words seem to have the strength to incite and urge on those of the young who are generous and to get a well-bred character and one truly in love with the noble to be possessed by virtue; but they appear incapable of inciting the many toward becoming gentlemen. For the many naturally obey the rule of fear, not of shame, and shun what is base not because it is ugly but because it is punished. Living by passion as they do, they pursue their own pleasures and whatever will bring these pleasures about . . . ; but of the noble and truly pleasant they do not even have the notion, since they have never tasted it. How could reasoned words reform such people? For it is not possible, or nor easy, to replace by reason what has long since become fixed in the character. (Nicomachean Ethics, 10.9, 1179b4–18)

The defect of reason can, however, be corrected by force: “Reason and teaching by no means prevail in everyone’s case; instead, there is need that the hearer’s soul, like earth about to nourish the seed, be worked over in its habits beforehand so as to enjoy and hate in a noble way. . . . Passion, as a general rule, does not seem to yield to reason but to force” (Nicomachean Ethics, 10.9, 1179b23–25). The behavioral substratum of virtue is habit, and habits can be inculcated by force. Aristotle describes law as “reasoned speech that proceeds from prudence and intellect” but yet “has force behind it” (Nicomachean Ethics, 10.9, 1180a18). Therefore, the compulsion of the appropriate laws is a great aid in acquiring virtue.

At this point, however, one might object that Aristotle has established only a case for parental, not political, force in moral education. Aristotle admits that only in Sparta and a few other cities is there public education in morals, while “In most cities these matters are neglected, and each lives as he wishes, giving sacred law, in Cyclops’ fashion, to his wife and children” (Nicomachean Ethics, 10.9, 1180a24–27). Aristotle grants that an education adapted to an individual is better than an education given to a group (Nicomachean Ethics, 10.9, 1180b7). But this is an argument against the collective reception of education, not the collective provision. He then argues that such an education is best left to experts, not parents. Just as parents have professional doctors care for their childrens’ bodies, they should have professional educators care for their souls (Nicomachean Ethics, 10.9, 1180b14–23). But this does not establish that the professionals should be employees of the state.

Two additional arguments for public education are found in Politics 8.1:

[1] Since the whole city has one end, it is manifest that everyone must also have one and the same education and that taking care of this education must be a common matter. It must not be private in the way that it is now, when everyone takes care of their own children privately and teaches them whatever private learning they think best. Of common things, the training must be common. [2] At the same time, no citizen should even think he belongs to himself but instead that each belongs to the city, for each is part of the city. The care of each part, however, naturally looks to the care of the whole, and to this extent praise might be due to the Spartans, for they devote the most serious attention to their children and do so in common. (Politics, 8.1 [5.1], 1337a21–32)

The second argument is both weak and question-begging. Although it may be useful for citizens to “think” that they belong to the city, not themselves, Aristotle offers no reason to think that this is true. Furthermore, the citizens would not think so unless they received precisely the collective education that needs to be established. The first argument, however, is quite strong. If the single, overriding aim of political life is the happiness of the citizens, and if this aim is best attained by public education, then no regime can be legitimate if it fails to provide public education.[2]

Another argument for public moral education can be constructed from the overall argument of the Politics. Since public education is more widely distributed than private education, other things being equal, the populace will become more virtuous on the whole. As we shall see, it is widespread virtue that makes popular government possible. Popular government is, moreover, one of the bulwarks of popular liberty. Compulsory public education in virtue, therefore, is a bulwark of liberty.

2. Politics and Freedom

Aristotle’s emphasis on compulsory moral education puts him in the “positive” libertarian camp. For Aristotle, a free man is not merely any man who lives in a free society. A free man possesses certain traits of character which allow him to govern himself responsibly and attain happiness. These traits are, however, the product of a long process of compulsory tutelage. But such compulsion can be justified only by the production of a free and happy individual, and its scope is therefore limited by this goal. Since Aristotle ultimately accepted the Socratic principle that all men desire happiness, education merely compels us to do what we really want. It frees us from our own ignorance, folly, and irrationality and frees us for our own self-actualization. This may be the rationale for Aristotle’s claim that, “the law’s laying down of what is decent is not oppressive” (Nicomachean Ethics, 10.9, 1180a24). Since Aristotle thinks that freedom from the internal compulsion of the passions is more important than freedom from the external compulsion of force, and that force can quell the passions and establish virtue’s empire over them, Aristotle as much as Rousseau believes that we can be forced to be free.

But throughout the Politics, Aristotle shows that he is concerned to protect “negative” liberty as well. In Politics 2.2–5, Aristotle ingeniously defends private families, private property, and private enterprise from Plato’s communistic proposals in the Republic, thereby preserving the freedom of large spheres of human activity.

Aristotle’s concern with privacy is evident in his criticism of a proposal of Hippodamus of Miletus which would encourage spies and informers (2.8, 1268b22).

Aristotle is concerned to create a regime in which the rich do not enslave the poor and the poor do not plunder the rich (3.10, 1281a13–27).

Second Amendment enthusiasts will be gratified at Aristotle’s emphasis on the importance of a wide distribution of arms in maintaining the freedom of the populace (2.8, 1268a16-24; 3.17, 1288a12–14; 4.3 [6.3], 1289b27–40; 4.13 [6.13], 1297a12–27; 7.11 [4.11], 1330b17–20).

War and empire are great enemies of liberty, so isolationists and peace lovers will be gratified by Aristotle’s critique of warlike regimes and praise of peace. The good life requires peace and leisure. War is not an end in itself, but merely a means to ensure peace (7.14 [4.14], 1334a2–10; 2.9, 1271a41–b9).

The best regime is not oriented outward, toward dominating other peoples, but inward, towards the happiness of its own. The best regime is an earthly analogue of the Prime Mover. It is self-sufficient and turned inward upon itself (7.3 [4.3], 1325a14–31). Granted, Aristotle may not think that negative liberty is the whole of the good life, but it is an important component which needs to be safeguarded.[3]

3. The Elements of Politics and the Mixed Regime

Since the aim of political association is the good life, the best political regime is the one that best delivers the good life. Delivering the good life can be broken down into two components: production and distribution. There are two basic kinds of goods: the goods of the body and the goods of the soul.[4] Both sorts of goods can be produced and distributed privately and publicly, but Aristotle treats the production and distribution of bodily goods as primarily private whereas he treats the production and distribution of spiritual goods as primarily public. The primary goods of the soul are moral and intellectual virtue, which are best produced by public education, and honor, the public recognition of virtue, talent, and service rendered to the city.[5] The principle of distributive justice is defined as proportionate equality: equally worthy people should be equally happy and unequally worthy people should be unequally happy, commensurate with their unequal worth (Nicomachean Ethics, 5.6–7). The best regime, in short, combines happiness and justice.

But how is the best regime to be organized? Aristotle builds his account from at least three sets of elements.

First, in Politics 3.6–7, Aristotle observes that sovereignty can rest either with men or with laws. If with men, then it can rest in one man, few men, or many men. (Aristotle treats it as self-evident that it cannot rest in all men.) The rulers can exercise political power for two different ends: for the common good and for special interests. One pursues the common good by promoting the happiness of all according to justice. Special interests can be broken down into individual or factional interests. A ruler can be blamed for pursuing such goods only if he does so without regard to justice, i.e., without a just concern for the happiness of all. When a single man rules for the common good, we have kingship. When he rules for his own good, we have tyranny. When the few rule for the common good, we have aristocracy. When they rule for their factional interest, we have oligarchy. When the many rule for the common good, we have polity. When they rule for their factional interest, we have democracy. These six regimes can exist in pure forms, or they can be mixed together.

Second, Aristotle treats social classes as elemental political distinctions. In Politics 3.8 he refines his definitions of oligarchy and democracy, claiming that oligarchy is actually the rule by the rich, whether they are few or many, and democracy is rule by the poor, whether they are few or many. Similarly, in Politics 4.11 (6.1) Aristotle also defines polity as rule by the middle class. In Politics 4.4 (6.4), Aristotle argues that the social classes are irreducible political distinctions. One can be a rich, poor, or middle class juror, legislator, or office-holder. One can be a rich, poor, or middle class farmer or merchant. But one cannot be both rich and poor at the same time (1291b2–13). Class distinctions cannot be eliminated; therefore, they have to be recognized and respected, their disadvantages meliorated and their advantages harnessed for the common good.

Third, in Politics 4.14 (6.14), Aristotle divides the activities of rulership into three different functions: legislative, judicial, and executive.[6]

Because rulership can be functionally divided, it is possible to create a mixed regime by assigning different functions to different parts of the populace. One could, for instance, mix monarchy and elite rule by assigning supreme executive office to a single man and the legislative and judicial functions to the few. Or one could divide the legislative function into different houses, assigning one to the few and another to the many. Aristotle suggests giving the few the power to legislate and the many the power to veto legislation. He suggests that officers be elected by the many, but nominated from the few. The few should make expenditures, but the many should audit them (2.12, 1274a15–21; 3.11, 1281b21–33; 4.14 [6.14], 1298b26–40).

In Politics 3.10, Aristotle argues that some sort of mixed regime is preferable, since no pure regime is satisfactory: “A difficulty arises as to what should be the controlling part of the city, for it is really either the multitude or the rich or the decent or the best one of all or a tyrant? But all of them appear unsatisfactory” (1281a11–13). Democracy is bad because the poor unjustly plunder the substance of the rich; oligarchy is bad because the rich oppress and exploit the poor; tyranny is bad because the tyrant does injustice to everyone (1281a13–28). Kingship and aristocracy are unsatisfactory because they leave the many without honors and are schools for snobbery and high-handedness (1281a28–33; 4.11 [6.11], 1295b13ff). A pure polity might be unsatisfactory because it lacks a trained leadership caste and is therefore liable to make poor decisions (3.11, 1281b21–33).

4. Checks and Balances, Political Rule, and the Rule of Law

Aristotle’s mixed regime is the origin of the idea of the separation of powers and “checks and balances.” It goes hand in hand with a very modern political realism. Aristotle claims that, “all regimes that look to the common advantage turn out, according to what is simply just, to be correct ones, while those that look only to the advantage of their rulers are mistaken and are all deviations from the correct regime. For they are despotic, but the city is a community of the free” (3.6, 1279a17–21).

It is odd, then, that in Politics 4.8–9 (6.8–9) Aristotle describes the best regime as a mixture of two defective regimes, oligarchy and democracy–not of two correct regimes, aristocracy and polity. But perhaps Aristotle entertained the possibility of composing a regime that tends to the common good out of classes which pursue their own factional interests.

Perhaps Aristotle thought that the “intention” to pursue the common good can repose not in the minds of individual men, but in the institutional logic of the regime itself. This would be an enormous advantage, for it would bring about the common good without having to rely entirely upon men of virtue and good will, who are in far shorter supply than men who pursue their own individual and factional advantages.

Related to the mixed regime with its checks and balances is the notion of “political rule.” Political rule consists of ruling and being ruled in turn:

. . . there is a sort of rule exercised over those who are similar in birth and free. This rule we call political rule, and the ruler must learn it by being ruled, just as one learns to be a cavalry commander by serving under a cavalry commander . . . Hence is was nobly said that one cannot rule well without having been ruled. And while virtue in these two cases is different, the good citizen must learn and be able both to be ruled and to rule. This is in fact the virtue of the citizen, to know rule over the free from both sides. (3.4, 1277b7–15; cf. 1.13, 1259b31–34 and 2.2, 1261a32–b3)

Aristotle makes it clear that political rule can exist only where the populace consists of men who are free, i.e., sufficiently virtuous that they can rule themselves. They must also be economically middle-class, well-armed, and warlike. They must, in short, be the sort of men who can participate responsibly in government, who want to participate, and who cannot safely be excluded. A populace that is slavish, vice-ridden, poor, and unarmed can easily be disenfranchised and exploited. If power were entirely in the hands of a free populace, the regime would be a pure polity, and political rule would exist entirely between equals. If, however, a free populace were to take part in a mixed regime, then political rule would exist between different parts of the regime. The many and the few would divide power and functions between them. Not only would members of each class take turns performing the different functions allotted to them, the classes themselves would rule over others in one respect and be ruled in another. In these circumstances, then, checks and balances are merely one form of political rule.

In Politics 3.16, Aristotle connects political rule to the rule of law:

What is just is that people exercise rule no more than they are subject to it and that therefore they rule by turns. But this is already law, for the arrangement is law. Therefore, it is preferable that law rule rather than any one of the citizens. And even if, to pursue the same argument, it were better that there be some persons exercising rule, their appointment should be as guardians and servants of the laws. For though there must be some offices, that there should be this one person exercising rule is, they say, not just, at least when all are similar. (1287a15–22)

Aristotle’s point is simple. If two men govern by turns, then sovereignty does not ultimately repose in either of them, but in the rule that they govern by turns. The same can be said of checks and balances. If the few spend money and the many audit the accounts, then neither group is sovereign, the laws are. If sovereignty reposes in laws, not men, the common good is safe. As Aristotle points out, “anyone who bids the laws to rule seems to bid god and intellect alone to rule, but anyone who bids a human being to rule adds on also the wild beast. For desire is such a beast and spiritedness perverts rulers even when they are the best of men. Hence law is intellect without appetite” (1287a23–31). The greatest enemy of the common good is private interest. The laws, however, have no private interests. Thus if our laws are conducive to the common good, we need not depend entirely on the virtue and public-spiritedness of men.

Aristotle would, however, hasten to add that no regime can do without these characteristics entirely, for the laws cannot apply themselves. They must be applied by men, and their application will seldom be better than the men who apply them. Furthermore, even though a regime may function without entirely virtuous citizens, no legitimate regime can be indifferent to the virtue of the citizens, for the whole purpose of political association is to instill the virtues necessary for happiness.

Notes

1. All quotes from Aristotle are from The Politics of Aristotle, trans. and ed. Peter L. Phillips Simpson (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1997). Simpson’s edition has two unique features. First, The Politics is introduced by a translation of Nicomachean Ethics 10.9. Second, Simpson moves books 7 and 8 of The Politics, positioning them between the traditional books 3 and 4. I retain the traditional ordering, indicating Simpson’s renumbering parenthetically. Unless otherwise noted, all quotes are from The Politics. Quotes from the Nicomachean Ethics will be indicated as such.

2. A useful commentary on these and other Aristotelian arguments for public education is Randall R. Curren, Aristotle on the Necessity of Public Education (Lanham, Maryland: Rowman and Littlefield, 2000).

3. For a fuller discussion of the value Aristotle puts on liberty, see Roderick T. Long, “Aristotle’s Conception of Freedom,” The Review of Metaphysics 49, no. 4 (June 1996), pp. 787–802.

4. One could add a third category of instrumental goods, but these goods are instrumental to the intrinsic goods of the body, the soul, or both, and thus could be classified under those headings.

5. As for the highest good of the soul, which is attained by philosophy, Aristotle’s flight from Athens near the end of his life shows that he recognized that different political orders can be more or less open to free thought, but I suspect that he was realist enough (and Platonist enough) to recognize that even the best cities are unlikely to positively cultivate true freedom to philosophize. I would wager that Aristotle would be both surprised at the freedom of thought in the United States and receptive to Tocquevillian complaints about the American tendency toward conformism that makes such freedom unthreatening to the reigning climate of opinion. A cynic might argue that if Americans actually made use of their freedom of thought, it would be quickly taken away.

6. On the complexities of the executive role in the Politics, see Harvey C. Mansfield, Jr., Taming the Prince: The Ambivalence of Modern Executive Power (Baltimore: The Johns Hopkins University Press, 1993), chs. 2–3.

Introduction to Aristotle’s Politics
Part 2: In Defense of Popular Government

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Part 2 of 2

5. The Good Man and the Good Citizen

Having now surveyed Aristotle’s thoughts on the elements and proper aim of politics, we can now examine his arguments for popular government. When I use the phrase “popular government,” it should be borne in mind that Aristotle does not advocate a pure polity, but a mixed regime with a popular element.

Aristotle’s first case for bringing the many into government can be discerned in Politics 3.4. Aristotle’s question is whether the virtues of the good man and the good citizen are the same. They are not the same, insofar as the virtue of the good citizen is defined relative to the regime, and there are many different regimes, while the virtue of the good man is defined relative to human nature, which is one. One can therefore be a good citizen but not a good man, and a good man but not a good citizen. History is replete with examples of regimes which punish men for their virtues and reward them for their vices. Aristotle does, however, allow that the good man and the good citizen can be one in a regime in which the virtues required of a good citizen do not differ from the virtues of a good man.

The chief virtue of a good man is prudence. But prudence is not required of a citizen insofar as he is ruled. Only obedience is required. Prudence is, however, required of a citizen insofar as he rules. Since the best regime best encourages happiness by best cultivating virtue, a regime which allows the many to govern along with the few is better than a regime which excludes them. By including the many in ruling, a popular regime encourages the widest cultivation of prudence and gives the greatest opportunity for its exercise. The best way to bring the many into the regime is what Aristotle calls political rule: ruling and being ruled in turn, as prescribed by law.

Political rule not only teaches the virtue of prudence to the many, it teaches the virtue of being ruled to the few, who must give way in turn to the many. Since the few aspire to rule but not be ruled, Aristotle argues that they cannot rule without first having been ruled: “the ruler must learn [political rule] by being ruled, just as one learns to be a cavalry commander by serving under a cavalry commander . . . Hence is was nobly said that one cannot rule well without having been ruled. And while virtue in these two cases is different, the good citizen must learn and be able both to be ruled and to rule. This is, in fact, the virtue of a citizen, to know rule over the free from both sides. Indeed, the good man too possesses both” (3.4, 1277b7–16).

Aristotle names justice as a virtue which is learned both in ruling and being ruled. Those born to wealth and power are liable to arrogance and the love of command. By subjecting them to the rule of others, including their social inferiors, they learn to respect their freedom and justly appraise their worth.

6. Potlucks, Chimeras, Juries

Aristotle’s next case for bringing the many into the regime is found in Politics 3.11.[1] Aristotle seeks to rebut the aristocratic argument against popular participation, namely that the best political decisions are wise ones, but wisdom is found only among the few, not the many. Popular participation, therefore, would inevitably dilute the quality of the political decision-makers, increasing the number of foolish decisions. Aristotle accepts the premise that the wise should rule, but he argues that there are circumstances in which the few and the many together are wiser than the few on their own. The aristocratic principle, therefore, demands the participation of the many:

. . . the many, each of whom is not a serious man, nevertheless could, when they have come together, be better than those few best–not, indeed, individually but as a whole, just as meals furnished collectively are better than meals furnished at one person’s expense. For each of them, though many, could have a part of virtue and prudence, and just as they could, when joined together in a multitude, become one human being with many feet, hands, and senses, so also could they become one in character and thought. That is why the many are better judges of the works of music and the poets, for one of them judges one part and another another and all of them the whole. (1281a42–b10)

At first glance, this argument seems preposterous. History and everyday life are filled with examples of wise individuals opposing foolish collectives. But Aristotle does not claim that the many are always wiser than the few, simply that they can be under certain conditions (1281b15).

The analogy of the potluck supper is instructive (cf. 3.15, 1286a28–30).[2] A potluck supper can be better than one provided by a single person if it offers a greater number and variety of dishes and diffuses costs and labor. But potluck suppers are not always superior–that is the “luck” in it. Potlucks are often imbalanced. On one occasion, there may be too many desserts and no salads. On another, three people may bring chicken and no one brings beef or pork. The best potluck, therefore, is a centrally orchestrated one which mobilizes the resources of many different contributors but ensures a balanced and wholesome meal.

Likewise, the best way to include the many in political decision-making is to orchestrate their participation, giving them a delimited role that maximizes their virtues and minimizes their vices. This cannot be accomplished in a purely popular regime, particularly a lawless one, but it can be accomplished in a mixed regime in which the participation of the populace is circumscribed by law and checked by the interests of other elements of the population.

Aristotle’s second analogy–which likens the intellectual and moral unity of the many to a man with many feet, hands, and sense organs, i.e., a freak of nature–does not exactly assuage doubters. But his point is valid. While even the best of men may lack a particular virtue, it is unlikely that it will be entirely absent from a large throng. Therefore, the many are potentially as virtuous or even more virtuous than the few if their scattered virtues can be gathered together and put to work. But history records many examples of groups acting less morally than any member on his own. Thus the potential moral superiority of the many is unlikely to emerge in a lawless democracy. But it could emerge in a lawful mixed regime, which actively encourages and employs the virtues of the many while checking their vices. This process can be illustrated by adapting an analogy that Aristotle offers to illustrate another point: A painting of a man can be more beautiful than any real man, for the painter can pick out the best features of individual men and combine them into a beautiful whole (3.11, 1281b10–11).

Aristotle illustrates the potential superiority of collective judgment with another questionable assertion, that “the many are better judges of the works of music and the poets, for one of them judges one part and another another and all of them the whole.” Again, this seems preposterous. Good taste, like wisdom, is not widely distributed and is cultivated by the few, not the many. Far more people buy “rap” recordings than classical ones. But Aristotle is not claiming that the many are better judges in all cases. Aristotle is likely referring to Greek dramatic competitions. These competitions were juried by the audience, not a small number of connoisseurs.

A jury trial or competition is a genuine collective decision-making process in which each juror is morally enjoined to pay close attention the matter at hand and to render an objective judgment.[3] Although each juror has his own partial impression, when jurors deliberate they can add their partial impressions together to arrive at a more complete and adequate account. To the extent that a jury decision must approach unanimity, the jurors will be motivated to examine the issue from all sides and persuade one another to move toward a rationally motivated consensus. A jury decision can, therefore, be more rational, well-informed, and objective than an individual one.[4] The market, by contrast, is not a collective decision-making process. It does not require a consumer to compare his preferences to those of others, to persuade others of their validity or defend them from criticism, or to arrive at any sort of consensus. Instead, the market merely registers the collective effects of individual decisions.[5]

7. Freedom and Stability

Another argument for popular government in Politics 3.11 (1281b21–33) is that it is more stable. Aristotle grants the Aristocratic principle that it is not safe for the populace to share in “the greatest offices” because, “on account of their injustice and unwisdom, they would do wrong in some things and go wrong in others.” But then he goes on to argue that it would not be safe to exclude the many from rule altogether, since a city “that has many in it who lack honor and are poor must of necessity be full of enemies,” which would be a source of instability. Instability is, however, inconsistent with the proper aim of politics, for the good life requires peace. The solution is a mixed regime which ensures peace and stability by allowing the many to participate in government, but not to occupy the highest offices. In Politics 2.9, Aristotle praises the Spartan Ephorate for holding the regime together, “since, as the populace share in the greatest office, it keeps them quiet. . . . For if any regime is going to survive, all the parts of the city must want it both to exist and to remain as it is” (1270b17–22; cf. Aristotle’s discussion of the Carthaginians in 2.9, 1272b29–32; see also 4.13 [6.13], 1297b6).

In Politics 2.12, Aristotle offers another reason for including the populace in government. Solon gave the populace, “the power that was most necessary (electing to office and auditing the accounts), since without it they would have been enslaved and hostile” (1274a4–6). Here Aristotle makes it clear that he values liberty, and he values popular government because it protects the liberty of the many.

8. Expert Knowledge

In Politics 3.11 Aristotle rebuts the argument that the many should not be involved in politics because they are amateurs, and decisions in politics, as in medicine and other fields, should be left to experts. In response to this, Aristotle repeats his argument that the many, taken together, may be better judges than a few experts. He then adds that there are some arts in which the products can be appreciated by people who do not possess the art: “Appreciating a house, for example, does not just belong to the builder; the one who uses it, namely the household manager, will pass an even better judgment on it. Likewise, the pilot judges the rudder better than the carpenter and the dinner guest judges the feast better than the chef” (1282a19–22). If the art of statesmanship is like these, then the best judge of the quality of a statesman is not the few political experts, but the many political laymen who are ruled by him. The judgment of the populace should not, therefore, be disdained.

9. Resistance to Corruption

In Politics 3.15 Aristotle argues that popular regimes are more resistant to corruption. Even in a regime in which law ultimately rules, there are particular circumstances which the laws do not anticipate. Where the law cannot decide, men must do so. But this creates an opportunity for corruption. Aristotle argues that such decisions are better made by large bodies deliberating in public: “What is many is more incorruptible: the multitude, like a greater quantity of water, is harder to ruin than a few. A single person’s judgment must necessarily be corrupted when he is overcome by anger or some other such passion, but getting everyone in the other case to become angry and go wrong at the same time takes a lot of doing. Let the multitude in question, however, be the free who are acting in no way against law, except where law is necessarily deficient” (1286a33–38). Aristotle’s argument that the many may collectively possess fewer vices than the few is merely a mirror image of his earlier collective virtue argument. Here, as elsewhere, Aristotle defends popular government only under delimited circumstances. The populace must be free, not slavish, and they must decide only when the laws cannot.

10. Delegation and Diffusion of Power

Politics 3.16 is devoted to arguments against total kingship. One of these arguments can be turned into a case for popular government. Aristotle claims that total kingship is unsustainable: “It is not easy for one person to oversee many things, so there will need to be many officials appointed in subordination to him. Consequently, what is the difference between having them there right from the start and having one man in this way appoint them? . . . if a man who is serious is justly ruler because he is better, then two good men are better than one” (1287b8–12, cf. 1287b25–29).

Since total kingship is unworkable, kings must necessarily appoint superior men as “peers” to help them. But if total kingship must create an aristocracy, then why not have aristocracy from the start?

This argument could, however, be pushed further to make a case for popular government. An aristocracy cannot effectively rule the people without the active participation of some and the passive acquiescence of the rest. As we have seen above, Aristotle argues that the best way to bring this about is popular government. But if aristocracy must eventually bring the populace into the regime, then why not include them from the very beginning?

11. When Regimes Fail

In Politics 4.2 (6.2), Aristotle returns to his list of pure regime types. The three just regimes are kingship, aristocracy, and polity; the three unjust ones are tyranny, oligarchy, and democracy. Aristotle proceeds to rank the three just regimes in terms of the kinds of virtues they require. Thus Aristotle identifies kingship and aristocracy as the best regimes because they are both founded on “fully equipped virtue” (1289a31). Of the two, kingship is the very best, for it depends upon a virtue so superlative that it is possessed by only one man. Aristocracy is less exalted because it presupposes somewhat more broadly distributed and therefore less exalted virtue. Polity depends upon even more widespread and modest virtue. Furthermore, the populace, unlike kings and aristocrats, lacks the full complement of material equipment necessary to fully exercise such virtues as magnificence.

By this ranking, polity is not the best regime, but the least of the good ones. But Aristotle then offers a new, politically realistic standard for ranking the just regimes which reverses their order. Kingship may be the best regime from a morally idealistic perspective, but when it degenerates it turns into tyranny, which is the worst regime. Aristocracy may be the second best regime from a morally idealistic perspective, but when it degenerates it turns into oligarchy, which is the second worst regime. Polity may be the third choice of the moral idealist, but when it degenerates, it merely becomes democracy, which is the best of a bad lot.

Since degeneration is inevitable, the political realist ranks regimes not only in terms of their best performances, but also in terms of their worst. By this standard, polity is the best of the good regimes and kingship the worst. Kingship is best under ideal conditions, polity under real conditions. Kingship is a sleek Jaguar, polity a dowdy Volvo. On the road, the Jaguar is clearly better. But when they go in the ditch, the Volvo shows itself to be the better car overall.

12. The Middle Class Regime

Aristotle displays the same political realism in his praise of the middle class regime in Politics 4.11 (6.11): “If we judge neither by a virtue that is beyond the reach of private individuals, nor by an education requiring a nature and equipment dependent on chance, nor again a regime that is as one would pray for, but by a way of life that most can share in common together and by a regime that most cities can participate in . . . ,” then a large, politically enfranchised middle class has much to recommend it: “In the case of political community . . . the one that is based on those in the middle is best, and . . . cities capable of being well governed are those sorts where the middle is large . . .” (1295b35–36).

Since the middle class is the wealthier stratum of the common people, Aristotle’s arguments for middle class government are ipso facto arguments for popular government. Aristotle makes it clear from the beginning, however, that he is not talking about a purely popular regime, but a mixed one compounded out of a middle class populace and those elements of aristocracy which are not out of the reach of most cities (1295a30–34).

Aristotle’s first argument for the middle regime seems a sophistry: “If it was nobly said in the Ethics that the happy way of life is unimpeded life in accordance with virtue and that virtue is a mean, then necessarily the middle way of life, the life of a mean that everyone can attain, must be best. The same definitions must hold also for the virtue and vice of city and regime, since the regime is a certain way of life of a city” (1295a35–40).

In the Nicomachean Ethics, Aristotle makes it clear that the fact that virtue can be understood as a mean between two vices, one of excess and the other of defect, does not imply either that virtue is merely an arithmetic mean (Nicomachean Ethics, 2.2, 1106a26–b8), or that virtue is to be regarded as mediocrity, not as superlative (Nicomachean Ethics, 2.2, 1107a9–27). Here, however, Aristotle describes the mean not as a superlative, but as a mediocrity “that everyone can attain.” This conclusion follows only if we presuppose that the morally idealistic doctrine of the Ethics has been modified into a moral realism analogous to the political realism of Politics 4.2.

Aristotle then claims that in a regime the mean lies in the middle class: “In all cities there are in fact three parts: those who are exceedingly well-off, those who are exceedingly needy, and the third who are in the middle of these two. So, since it is agreed that the mean and middle is best, then it is manifest that a middling possession also of the goods of fortune must be best of all” (1295b1–3). Aristotle is, however, equivocating. He begins by defining the middle class as an arithmetic mean between the rich and the poor. He concludes that the middle class is a moral mean. But he does not establish that the arithmetic mean corresponds with the moral.

Aristotle does, however, go on to offer reasons for thinking that the social mean corresponds to the moral mean. But the middle class is not necessarily more virtuous because its members have been properly educated, but because their social position and class interests lead them to act as if they had been.

First, Aristotle argues that “the middle most easily obeys reason.” Those who are “excessively beautiful or strong or well-born or wealthy” find it hard to follow reason, because they tend to be “insolent and rather wicked in great things.” By contrast, those who are poor and “extremely wretched and weak, and have an exceeding lack of honor” tend to become “villains and too much involved in petty wickedness.” The middle class is, however, too humble to breed insolence and too well-off to breed villainy. Since most injustices arise from insolence and villainy, a regime with a strong middle class will be more likely to be just.

Second, Aristotle argues that the middle class is best suited to ruling and being ruled in turn. Those who enjoy, “an excess of good fortune (strength, wealth, friends, and other things of the sort)” love to rule and dislike being ruled. Both of these attitudes are harmful to the city, yet they naturally arise among the wealthy. From an early age, the wealthy are instilled with a “love of ruing and desire to rule, both of which are harmful to cities” (1295b12), and, “because of the luxury they live in, being ruled is not something they get used to, even at school” (1295b13–17). By contrast, poverty breeds vice, servility, and small-mindedness. Thus the poor are easy to push around, and if they do gain power they are incapable of exercising it virtuously. Therefore, without a middle class, “a city of slaves and masters arises, not a city of the free, and the first are full of envy while the second are full of contempt.” Such a city must be “at the furthest remove from friendship and political community” (1295b21–24). The presence of a strong middle class, however, binds the city into a whole, limiting the tendency of the rich to tyranny and the poor to slavishness, creating a “city of the free.”

Third, Aristotle argues that middle class citizens enjoy the safest and most stable lives, imbuing the regime as a whole with these characteristics. Those in the middle are, among all the citizens, the most likely to survive in times of upheaval, when the poor starve and the rich become targets. They are sufficiently content with their lot not to envy the possessions of the rich. Yet they are not so wealthy that the poor envy them. They neither plot against the rich nor are plotted against by the poor.

Fourth, a large middle class stabilizes a regime, particularly if the middle is “stronger than both extremes or, otherwise, than either one of them. For the middle will tip the balance when added to either side and prevent the emergence of an excess at the opposite extremes” (1295b36–40). Without a large and powerful middle class, “either ultimate rule of the populace arises or unmixed oligarchy does, or, because of excess on both sides, tyranny” (1296a3; cf. 6.12, 1297a6ff).

Fifth is the related point that regimes with large middle classes are relatively free of faction and therefore more concerned with the common good. This is because a large middle class makes it harder to separate everyone out into two groups (1296a7–10).

Finally, Aristotle claims that one sign of the superiority of middle class regimes is that the best legislators come from the middle class. As examples, he cites Solon, Lycurgus, and Charondas (1296a18–21).

Conclusion: Aristotle’s Polity and Our Own

If the proper aim of government is to promote the happiness of the citizen, Aristotle marshals an impressive array of arguments for giving the people, specifically the middle class, a role in government. These arguments can be grouped under five headings: virtue, rational decision-making, freedom, stability, and resistance to corruption.

Popular government both presupposes and encourages widespread virtue among the citizens, and virtue is a necessary condition of happiness. Middle class citizens are particularly likely to follow practical reason and act justly, for they are corrupted neither by wealth nor by poverty. Popular participation can improve political decision-making by mobilizing scattered information and experience, and more informed decisions are more likely to promote happiness. In particular, popular government channels the experiences of those who are actually governed back into the decision-making process.

Popular participation preserves the freedom of the people, who would otherwise be exploited if they had no say in government. By preserving the freedom of the people, popular participation unifies the regime, promoting peace and stability which in turn are conducive to the pursuit of happiness. This is particularly the case with middle class regimes, for the middle class prevents excessive and destabilizing separation and between the extremes of wealth and poverty.

Popular governments are also more resistant to corruption. It is harder to use bribery or trickery to corrupt decisions made by many people deliberating together in public than by one person or a few deciding in private. This means that popular regimes are more likely to promote the common good instead of allowing the state to become a tool for the pursuit of one special interest at the expense of another. Furthermore, if a popular regime does become corrupt, it is most likely to become a democracy, which is the least unjust of the bad regimes and the easiest to reform.

All these are good arguments for giving the people a role in government. But not just any people. And not just any role.

First, Aristotle presupposes a small city-state. He did not think that any regime could pursue the common good if it became too large. This is particularly true of a popular regime, for the larger the populace, the less room any particular citizen has for meaningful participation.

Second, he presupposes a populace which is racially and culturally homogeneous. A more diverse population is subject to faction and strife. It will either break up into distinct communities or it will have to be held together by violence and governed by an elite. A more diverse population also erodes a society’s moral consensus, making moral education even more difficult.

Third, political participation will be limited to middle-class and wealthy property-owning males, specifically men who derive their income from the ownership of productive land, not merchants and craftsmen.

Fourth, Aristotle circumscribes the role of the populace by assigning it specific legal roles, such as the election of officers and the auditing of accounts–roles which are checked and balanced by the legal roles of the aristocratic element, such as occupying leadership positions.

If Aristotle is right about the conditions of popular government, then he would probably take a dim view of its prospects in America.

First and foremost, Aristotle would deplore America’s lack of concern with moral education. Aristotle’s disagreement would go beyond the obvious fact that the American founders did not make moral education the central concern of the state. America has neglected to cultivate even the minimal moral virtues required to maintain a liberal regime, virtues such as independence, personal responsibility, and basic civility.

Second, Aristotle would predict that multiculturalism and non-white immigration will destroy the cultural preconditions of popular government.

Third, Aristotle would reject America’s ever-widening franchise–particularly the extension of the vote to women, non-property owners, and cultural aliens–as a sure prescription for lowering the quality of public decision-making in the voting booth and jury room.

Fourth, Aristotle would be alarmed by the continuing erosion of the American working and middle classes by competition from foreign workers both inside and outside America’s borders. He would deplore America’s transformation from an agrarian to an industrial-mercantile civilization and support autarky rather than free trade and economic globalization.

Fifth, Aristotle would be alarmed by ongoing attempts to disarm the populace.

Sixth, he would condemn America’s imperialistic and warlike policies toward other nations.

Finally, Aristotle would likely observe that since genuine popular government is difficult with hundreds of thousands of citizens it will be impossible with hundreds of millions.

In short, if Aristotle were alive today, he would find himself to the right of Patrick J. Buchanan, decrying America’s decline from a republic to an empire. Aristotle challenges us to show whether and how liberty and popular government are compatible with feminism, multiculturalism, and globalized capitalism.

To conclude, however, on a more positive note: Although Aristotle gives reasons to think that the future of popular government in America is unpromising, he also gives reasons for optimism about the long-term prospects of popular government in general, for his defense of popular government is based on a realistic assessment of human nature, not only in its striving for perfection, but also in its propensity for failure.

Notes

1. For useful discussions of the arguments of Politics 3.11, see Mary P. Nichols, Citizens and Statesmen: A Study of Aristotle’s Politics (Lanham, Maryland: Rowman and Littlefield, 1992), 66–71, and Peter L. Phillips Simpson, A Philosophical Commentary on the Politics of Aristotle (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1998), 166-71.

2. On the potluck supper analogy, see Arlene W. Saxonhouse, Fear of Diversity: The Birth of Political Science in Ancient Greek Thought (Chicago: University of Chicago Press, 1992), 222–24.

3. I wish to thank M. L. C. for suggesting the model of a jury trial.

4 . For a beautiful description of the deliberative process of a jury, see John C. Calhoun, A Disquisition on Government, in Union and Liberty: The Political Philosophy of John C. Calhoun, ed. Ross M. Lence (Indianapolis: Liberty Fund, 1992), 49–50.

5. Friedrich A. Hayek’s classic essay “The Use of Knowledge in Society,” in his Individualism and Economic Order (Chicago: University of Chicago Press, 1948), argues that the market is superior to central planning because it better mobilizes widely scattered information. The market is, of course, larger than any possible jury and thus will always command more information. However, if one were to compare a market and a jury of the same size, the jury would clearly be a more rational decision-making process, for the market registers decisions based on perspectives which are in principle entirely solipsistic, whereas the jury requires a genuine dialogue which challenges all participants to transcend their partial and subjective perspectives and work toward a rational consensus which is more objective than any individual decision because it more adequately accounts for the phenomena in question than could any individual decision. It is this crucial disanalogy that seems to vitiate attempts to justify the market in terms of Gadamerian, Popperian, or Habermasian models and communicative rationality. For the best statement of this sort of approach, see G. B. Madison, The Political Economy of Civil Society and Human Rights (New York: Routledge, 1998), esp. chs. 3–5.

 


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dimanche, 24 juin 2012

Les « élites » et « l'écroulement d'un monde », selon Frédéric Lordon

 

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Les « élites » et « l'écroulement d'un monde », selon Frédéric Lordon

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« (...) la catastrophe étant sans doute le mode historique le plus efficace de destruction des systèmes de domination, l’accumulation des erreurs des "élites" actuelles, incapables de voir que leurs "rationalités" de court terme soutiennent une gigantesque irrationalité de long terme, est cela même qui nous permet d’espérer voir ce système s’écrouler dans son ensemble.

Il est vrai que l’hypothèse de l’hybris, comprise comme principe d’illimitation, n’est pas dénuée de valeur explicative. (...) Car c’est bien l’abattement des dispositifs institutionnels de contention des puissances qui pousse irrésistiblement les puissances à propulser leur élan et reprendre leur marche pour pousser l’avantage aussi loin que possible. Et il y a bien quelque chose comme une ivresse de l’avancée pour faire perdre toute mesure et réinstaurer le primat du "malpropre" et du "borné" dans la "rationalité" des dominants.

Ainsi, un capitaliste ayant une vue sur le long terme n’aurait pas eu de mal à identifier l’État-providence comme le coût finalement relativement modéré de la stabilisation sociale et de la consolidation de l’adhésion au capitalisme, soit un élément institutionnel utile à la préservation de la domination capitaliste – à ne surtout pas bazarder ! Évidemment, sitôt qu’ils ont senti faiblir le rapport de force historique, qui au lendemain de la seconde guerre mondiale leur avait imposé la Sécurité sociale – ce qui pouvait pourtant leur arriver de mieux et contribuer à leur garantir trente années de croissance ininterrompue –, les capitalistes se sont empressés de reprendre tout ce qu’ils avaient dû concéder. (...)

Il faudrait pourtant s’interroger sur les mécanismes qui, dans l’esprit des dominants, convertissent des énoncés d’abord grossièrement taillés d’après leurs intérêts particuliers en objets d’adhésion sincère, endossés sur le mode la parfaite généralité. Et peut-être faudrait-il à cette fin relire la proposition 12 de la partie III de l’Éthique de Spinoza selon laquelle "l’esprit s’efforce d’imaginer ce qui augmente la puissance d’agir de son corps", qu’on retraduirait plus explicitement en "nous aimons à penser ce qui nous réjouit (ce qui nous convient, ce qui est adéquat à notre position dans le monde, etc.)".

Nul doute qu’il y a une joie intellectuelle particulière du capitaliste à penser d’après la théorie néoclassique que la réduction du chômage passe par la flexibilisation du marché du travail. Comme il y en a une du financier à croire à la même théorie néoclassique, selon laquelle le libre développement de l’innovation financière est favorable à la croissance. Le durcissement en énoncés à validité tout à fait générale d’idées d’abord manifestement formées au voisinage immédiat des intérêts particuliers les plus grossiers trouve sans doute dans cette tendance de l’esprit son plus puissant renfort.

C’est pourquoi la distinction des cyniques et des imbéciles est de plus en plus difficile à faire, les premiers mutant presque fatalement pour prendre la forme des seconds. À bien y regarder, on ne trouve guère d’individus aussi "nets" – il faudrait dire aussi intègres – que le Patrick Le Lay de TF1 qui, peu décidé à s’embarrasser des doctrines ineptes et faussement démocratiques de la "télévision populaire", déclarait sans ambages n’avoir d’autre objectif que de vendre aux annonceurs du temps de cerveau disponible ; rude franchise dont je me demande s’il ne faut pas lui en savoir gré : au moins, on sait qui on a en face de soi, et c’est une forme de clarté loin d’être sans mérite.

Pour le reste, il y a des résistances doctrinales faciles à comprendre : la finance, par exemple, ne désarmera jamais. Elle dira et fera tout ce qu’elle peut pour faire dérailler les moindres tentatives de re-réglementation. Elle y arrive fort bien d’ailleurs ! Il n’est que de voir l’effrayante indigence des velléités régulatrices pour s’en convaincre, comme l’atteste le fait que, depuis 2009, si peu a été fait que la crise des dettes souveraines menace à nouveau de s’achever en un effondrement total de la finance internationale. Pour le coup, rien n’est plus simple à comprendre : un système de domination ne rendra jamais les armes de lui-même et cherchera tous les moyens de sa perpétuation.

On conçoit aisément que les hommes de la finance n’aient pas d’autre objectif que de relancer pour un tour supplémentaire le système qui leur permet d’empocher les faramineux profits de la bulle et d’abandonner les coûts de la crise au corps social tout entier, forcé, par puissance publique interposée, de venir au secours des institutions financières, sauf à périr lui-même de l’écroulement bancaire. Il faut simplement se mettre à leur place ! Qui, en leur position, consentirait à renoncer ?

Il faudrait même dire davantage : c’est une forme de vie que ces hommes défendent, une forme de vie où entrent aussi bien la perspective de gains monétaires hors norme que l’ivresse d’opérer à l’échelle de la planète, de mouvementer des masses colossales de capitaux, pour ne rien dire des à-côtés les plus caricaturaux, mais bien réels, du mode de vie de l’ "homme des marchés" : filles, bagnoles, dope. Tous ces gens n’abandonneront pas comme ça ce monde merveilleux qui est le leur, il faudra activement le leur faire lâcher.

C’est en fait à propos de l’État que le mystère s’épaissit vraiment. Préposé à la socialisation des pertes bancaires et au serpillage des coûts de la récession, littéralement pris en otage par la finance dont il est condamné à rattraper les risques systémiques, n’est-il pas celui qui aurait le plus immédiatement intérêt à fermer pour de bon le foutoir des marchés ?

Il semble que poser la question ainsi soit y répondre, mais logiquement seulement, c’est-à-dire en méconnaissant sociologiquement la forme d’État colonisé qui est le propre du bloc hégémonique néolibéral : les représentants de la finance y sont comme chez eux. L’interpénétration, jusqu’à la confusion complète, des élites politiques, administratives, financières, parfois médiatiques, a atteint un degré tel que la circulation de tous ces gens d’une sphère à l’autre, d’une position à l’autre, homogénéise complètement, à quelques différences secondes près, la vision du monde partagée par ce bloc indistinct.

La fusion oligarchique – et il faudrait presque comprendre le mot en son sens russe – a conduit à la dé-différenciation des compartiments du champ du pouvoir et à la disparition des effets de régulation qui venaient de la rencontre, parfois de la confrontation, de grammaires hétérogènes ou antagonistes. Ainsi par exemple a-t-on vu, aidé sans doute par un mécanisme d’attrition démographique, la disparition de l’habitus de l’homme d’État tel qu’il a pris sa forme accomplie au lendemain de la seconde guerre mondiale, l’expression "homme d’État" n’étant pas à comprendre au sens usuel du "grand homme" mais de ces individus porteurs des logiques propres de la puissance publique, de sa grammaire d’action et de ses intérêts spécifiques.

Hauts fonctionnaires ou grands commis, jadis hommes d’État parce que dévoués aux logiques de l’État, et déterminés à les faire valoir contre les logiques hétérogènes – celles par exemple du capital ou de la finance –, ils sont une espèce en voie de disparition, et ceux qui aujourd’hui "entrent dans la carrière" n’ont pas d’autre horizon intellectuel que la réplication servile (et absurde) des méthodes du privé (d’où par exemple les monstruosités du type "RGPP", la Révision générale des politiques publiques), ni d’autre horizon personnel que le pantouflage qui leur permettra de s’intégrer avec délice à la caste des élites indifférenciées de la mondialisation.

Les dirigeants nommés à la tête de ce qui reste d’entreprises publiques n’ont ainsi rien de plus pressé que de faire sauter le statut de ces entreprises, conduire la privatisation, pour aller enfin rejoindre leurs petits camarades et s’ébattre à leur tour dans le grand bain des marchés mondiaux, de la finance, des fusions-acquisitions – et "accessoirement" des bonus et des stock-options.

Voilà le drame de l’époque : c’est qu’au niveau de ces gens qu’on continue à appeler – on se demande pourquoi tant leur bilan historique est accablant – des "élites", il n’y a plus nulle part aucune force de rappel intellectuelle susceptible de monter un contre-discours. Et le désastre est complet quand les médias eux-mêmes ont été, et depuis si longtemps, emportés par le glissement de terrain néolibéral ; le plus extravagant tenant à la reconduction des éditorialistes, chroniqueurs, experts à demi vendus et toute cette clique qui se présente comme les précepteurs éclairés d’un peuple nativement obtus et "éclairable" par vocation.

On aurait pu imaginer que le cataclysme de l’automne 2008 et l’effondrement à grand spectacle de la finance conduirait à une non moins grande lessive de tous ces locuteurs émergeant en guenilles des ruines fumantes, mais rien du tout ! Pas un n’a bougé !

Alain Duhamel continue de pontifier dans Libération ; le même journal, luttant désespérément pour faire oublier ses décennies libérales, n’en continue pas moins de confier l’une de ses plus décisives rubriques, la rubrique européenne, à Jean Quatremer qui a méthodiquement conchié tous ceux qui dénonçaient les tares, maintenant visibles de tous, de la construction néolibérale de l’Europe. Sur France Inter, Bernard Guetta franchit matinée après matinée tous les records de l’incohérence – il faudrait le reconduire à ses dires d’il y a cinq ans à peine, je ne parle même pas de ceux de 2005, fameuse année du traité constitutionnel européen… L’émission hebdomadaire d’économie de France Culture oscille entre l’hilarant et l’affligeant en persistant à tendre le micro à des gens qui ont été les plus fervents soutiens doctrinaux du monde en train de s’écrouler, parmi lesquels Nicolas Baverez par exemple, sans doute le plus drôle de tous, qui s’est empressé de sermonner les gouvernements européens et de les enjoindre à la plus extrême rigueur avant de s’apercevoir que c’était une ânerie de plus. Et tous ces gens plastronnent dans la plus parfaite impunité, sans jamais que leurs employeurs ne leur retirent ni une chronique ni un micro, ni même ne leur demandent de s’expliquer ou de rendre compte de leurs discours passés.

Voilà le monde dans lequel nous vivons, monde de l’auto-blanchiment collectif des faillis. (...)

Dans ce paysage où tout est verrouillé, où la capture "élitaire" a annihilé toute force de rappel, je finis par me dire qu’il n’y a plus que deux solutions de remise en mouvement : une détérioration continue de la situation sociale, qui conduirait au franchissement des "seuils" pour une partie majoritaire du corps social, c’est-à-dire à une fusion des colères sectorielles et à un mouvement collectif incontrôlable, potentiellement insurrectionnel ; ou bien un effondrement "critique" du système sous le fardeau de ses propres contradictions – évidemment à partir de la question des dettes publiques – et d’un enchaînement menant d’une série de défauts souverains à un collapsus bancaire – mais cette fois autre chose que la bluette "Lehman"…

Disons clairement que la deuxième hypothèse est infiniment plus probable que la première… quoiqu’elle aurait peut-être, en retour, la propriété de la déclencher dans la foulée. Dans tous les cas, il faudra sacrément attacher sa ceinture. (...)

À constater le degré de verrouillage d’institutions politiques devenues absolument autistes et interdisant maintenant tout processus de transformation sociale à froid, je me dis aussi parfois que la question ultra taboue de la violence en politique va peut-être bien devoir de nouveau être pensée, fût-ce pour rappeler aux gouvernants cette évidence connue de tous les stratèges militaires qu’un ennemi n’est jamais si prêt à tout que lorsqu’il a été réduit dans une impasse et privé de toute issue.

Or il apparaît d’une part que les gouvernements, entièrement asservis à la notation financière et dévoués à la satisfaction des investisseurs, sont en train de devenir tendanciellement les ennemis de leurs peuples, et d’autre part que si, à force d’avoir méthodiquement fermé toutes les solutions de délibération démocratique, il ne reste plus que la solution insurrectionnelle, il ne faudra pas s’étonner que la population, un jour portée au-delà de ses points d’exaspération, décide de l’emprunter – précisément parce que ce sera la seule. »

Frédéric Lordon (décembre 2011)

samedi, 23 juin 2012

La communauté ou le cauchemar du Système

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La communauté ou le cauchemar du Système

Ex: http://verslarevolution.hautetfort.com/

« L’atomisation sociétale, l’anomie sociale, la guerre de tous contre tous et l’extrême individualisation égoïsto-nombriliste des existences contemporaines ne sont pas des "dommages collatéraux" de la  société capitalisto-marchande, les  symptômes de maux superficiels qui pourraient être guéris par des "ajustements" du système, ce sont tout au contraire le substrat, la matière première et le carburant du monde libéral.

L’oligarchie financiaro-mercantile ne peut en effet régner que sur un conglomérat d’individus séparés, isolés, concurrents les uns des autres en tous domaines (emploi, sexualité, sentimentalité, consommation, représentations symboliques…) et n’ayant pas d’autre horizon que la poursuite de leurs intérêts particuliers et la satisfaction de leurs désirs matériels. C’est pour cela que la bourgeoisie financière, avec l’appui actif et empressé des idiots utiles de la gauche "libérale/ libertaire",  n’a jamais eu de cesse que de faire disparaître toutes les entités collectives et les corps intermédiaires qui séparaient encore l’individu du Marché (corporations, syndicats, églises, familles, nations…).

Car le cauchemar du système de l’individu-roi, déraciné et interchangeable, défini uniquement par sa capacité de consommation, porte un nom, celui de "communauté".

La communauté est un groupement humain rassemblant des individus qui veulent être acteurs et non spectateurs de leur existence, qui ont compris qu’il n’y a ni espoir ni avenir dans la "délégation" du politique à des "élites" expertocratiques qui ne servent jamais que leurs propres intérêts de classe.

A l’opposé du "héros solitaire", notamment vanté par la littérature commerciale et les représentations cinématographiques hollywoodiennes,  qui s’oppose au monde au nom de son exceptionnelle singularité, le membre d’une communauté sait que ce n’est que par l’action collective, l’union des qualités et des talents, la collaboration des caractères et des volontés que l’on peut trouver des issues à l’impasse contemporaine et bâtir des alternatives concrètes et durables au suicide général qu’est la mondialisation libérale.

 

La communauté n’est ni un ghetto ni un refuge, c’est un camp de base, fortifié sur ses fondations mais ouvert sur le monde, un point de ralliement et d’organisation aujourd’hui indispensable à toute perspective de résistance et de reconquête. La communauté c’est l’interdépendance au service d’un projet commun.

Si la communauté se nourrit de la proximité ethnico-culturelle, fruit de la lignée et de l’enracinement historique,  elle ne se limite nullement à elle  puisque ce qui en fait à la fois la force, la spécificité et le dynamisme est le fait d’incarner des valeurs élevées et exigeantes mais dans lesquelles, potentiellement, tout homme libre, fier et aimant peut se reconnaître.

Ainsi si la communauté offre une nécessaire image d’homogénéité, c’est une homogénéité "plurielle" c’est-à-dire qui associe la diversité des individus, des parcours, des origines et des caractères à un socle moral et politique commun et des objectifs partagés. C’est donc avant tout une homogénéité d’esprit, de vues, d’aspirations et d’espoirs.

Le Larzac plus l’Ordre

Le système se moque des contestations qui ne sont que sonores ou visuelles, des agitations vociférantes, des slogans et des palabres. Il les recycle même avec une déconcertante facilité, les transformant bien souvent en nouvelles micro-niches commerciales nourrissant généreusement le supermarché global. Tant que ses prétendus adversaires continuent à suivre ses programmes télé, à fréquenter ses centres commerciaux et ses agences de voyages, à intégrer ses codes esthétiques et son imaginaire et à apporter leur écot à l’organisation bancaire (épargne, emprunts, assurances-vie…), ils peuvent bien pondre tous les manifestes, tous les fanzines, tous les pamphlets qu’ils souhaitent, ils peuvent même organiser trois fois par an tous les saccages anti G20 ou G8 qu’ils désirent, le système s’en moque éperdument, et  même s’en pourlèche, pouvant ainsi agiter l’épouvantail factice d’une virulente et redoutable "opposition".

Aujourd’hui, la seule réelle crainte du système est clairement le retrait et le court-circuit, c’est-à-dire le fait pour des individus, regroupés et organisés au sein de communautés, de rompre non pas avec les superficialités du temps mais avec les fondements de l’époque : la consommation, l’industrie du divertissement et l’omniprésence financière. Il suffit pour s’en convaincre de constater le mépris hargneux de la "gauche" capitalo-compatible envers les tenants de la "décroissance" ou l’acharnement judiciaro-policier dont ont été victimes les SEL (Systèmes d’échanges locaux), les "casseurs de pub" ou les épiciers communautaires de Tarnac.

Que ces expériences socialo-collectivistes se débarrassent de leurs scories libertariennes, xénophiles et ethno-masochistes et s’enrichissent des préoccupations patriotiques, méritocratiques et différentialistes et la plus grand terreur de l’oligarchie prendra alors forme, réveillant les fantômes de la Commune et le souvenir de Louis Rossel.

Pour atteindre cet objectif, qui est tout sauf utopique, il n’y a pas d’autre voie que la communauté, seul "lieu" où le retrait et le court-circuit (consistant à se passer au maximum des infrastructures et des mécanismes imposés par le système)  sont viables et porteurs de sens politique. Car il ne s’agit pas d’encourager à la multiplication des retraites au désert et des vocations d’anachorètes mais d’inciter à la mise en place de structures collectives où un autre mode de vie, basé sur la décence commune, le sens de la mesure, l’altruisme, la simplicité volontaire, est possible sans être synonyme d’exclusion et de précarisation progressive.

Prêts sans intérêts entre camarades, habitat collectif, recyclage et récupération, services gratuits, troc, rejet de la lobotomie télévisuelle et de l’emprisonnement facebookien, réappropriation agraire, coopératives, loisirs collectifs, chantiers communs… les moyens, à la fois humbles et gigantesques,  sont nombreux pour poser dès aujourd’hui les premières pierres de ces communautés qui seront autant de monastères et de phalanstères conservant et entretenant la flamme de la civilisation au cœur de la longue nuit de la barbarie libérale. »

 

Zentropa

jeudi, 21 juin 2012

La démocratie jusqu’à l’indigestion

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La démocratie jusqu’à l’indigestion

par Pierre LE VIGAN

Une société suppose des règles de civilité. Et ce sont ces règles qui rendent possible le droit, et la démocratie, en d’autres termes un code raisonné des affrontements politiques. La civilité, c’est le dépassement des préjugés, des tribus, des égoïsmes. C’est un horizon commun donc une culture commune. Disons le mot : ce sont des mœurs communes. Or à quoi assistons-nous ? À la réduction de la démocratie à des procédures, à des droits sociaux déconnectés des usages culturels de notre pays.

 

Ces droits appliqués à tout constituent une hyper-démocratie : droit à la santé, à la culture, etc. Mais l’inconvénient, c’est que l’hyper-démocratie tue la vraie démocratie. Car l’hyper-démocratie est démesure, hubris (outrage), tandis que la démocratie est l’apprentissage du temps, de la patience, du travail, de l’effort. C’est l’effort même de la civilisation.

 

Nous en sommes là. L’hyper-démocratie est, explique Renaud Camus, « la transposition plus ou moins opportune de la démocratie dans des domaines où sa pertinence est moins immédiatement évidente qu’en celui qui circonscrit le processus décisionnel au sein de la cité ». Par voie de conséquence, les mots perdent leur sens. La culture ne consiste plus à élever tout le monde dans la mesure des possibles de chacun mais à dire que tout est culture. Il en est de même pour l’éducation. Tout le monde a « le niveau » puisque le niveau est celui de tout le monde. Au terme de cela, c’est une moyennisation du monde qui se met en place. Ce sont les vraies hiérarchies qui s’effacent pour laisser la place aux seules hiérarchies de l’argent. Les riches ne sont plus des gens cultivés et aisés (ce qu’ils n’étaient pas toujours mais ce que l’on attendait d’eux !). Ce sont des pauvres qui ont réussis. « Les riches ne sont plus que des pauvres avec plus d’argent », note Renaud Camus. Le festivisme de la vie sociale et l’ironisation de tout sont les conséquences de cela, avec la dépolitisation qui va avec. L’enseignement de l’ignorance se combine avec la généralisation de la muflerie. Pour refaire une démocratie, c’est tout le problème de l’éducation du peuple qui devra être repris.

 

Pierre Le Vigan

 

• Renaud Camus, Décivilisation, Fayard, 212 p., 17 €.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=2486

mercredi, 13 juin 2012

Civilization as political concept

Civilization as political concept

Interview with the leader of the International “Eurasian Movement”, a philosopher, and a  professor at Moscow State University Alexander Dugin

Interviewed by the Global Revolutionary Alliance’s own Natella Speranskaja 

Ex: http://www.granews.info/

- The crisis of identity, with which we faced after the Cold War and the collapse of the communist world, is still relevant. What do you think is capable of lifting us out of this crisis  – a religious revival or creation of a new political ideology? Which of the options are you  inclined to yourself?

- After the collapse of communism came the phase of the “unipolar moment” (as Charles Krauthammer called it). In geopolitics, this meant the victory of unilateralism and Atlanticism, and because the pole was left alone, the West has become a global phenomenon. Accordingly,  the ideology of liberalism (or more accurately, neo-liberalism) is firmly in place crushing the two alternative political theories that existed in the twentieth century – communism and fascism . The Global liberal West has now defined culture, economics, information and technology, and politics. The West’s claims to the universalism of it’s values, the values of Western modernity and the Postmodern era, has reached its climax. 

Problems stemming from the West during the “unipolar moment” has led many to say that this “moment” is over, that he could not yet be a “destiny” of humanity.That is, a “unipolar moment” should be interpreted very broadly – not only geopolitical, but also ideologically, economically, axiologically, civilization wide. The crisis of identity, about which you ask, has scrapped all previous identities – civilizational, historical, national, political, ethnic, religious, cultural, in favor of a universal planetary Western-style identity  – with its concept of individualism, secularism, representative democracy, economic and political liberalism, cosmopolitanism and the ideology of human rights.Instead of a hierarchy of identities, which have traditionally played a large role in sets of collective identities, the “unipolar moment” affirmed a flat one-dimensional identity, with the absolutization of the individual singularity.  One individual = one identity, and any forms of the collective identity (for example, individual as the part of the religious community, nation, ethnic group, race, or even sex) underwent dismantling and overthrow. Hence the hatred of globalists for different kind of “majorities” and protection of minorities, up to the individual.

The Uni-polar Democracy of our moment - this is a democracy, which unambiguously protects the minority before the face of the majority and the individual before face of the group.  This is  the crisis of identity for those of non-Western or non-modern (or even not “postmodern”) societies,since this is where customary models are scrapped and liquidated. The postmodern West with  optimism, on the contrary, asserts individualism and hyper-liberalism in its space and zealously  exports it on the planetary scale.

However, it’s not painless, and has caused at all levels it’s own growing rejection.  The problems, which have  appeared in the West in the course of this “uni-polar moment”, forced many to speak, that this “moment’s” conclusion, has not succeeded in becoming “the fate” of humanity.  This, therefore,  was the cost of the  possibility of passage to some other paradigm…

So, we can think about an alternative  to the “unipolar moment” and, therefore, an alternative to liberalism, Americanism, Atlanticism, Western Postmodernism, globalization, individualism, etc. That is, we can, and I think should,  work out plans and strategies for a “post-uni polar world “, at all levels – the ideological and political, the economic, and religious, and the philosophical and geo-political, the cultural and civilizational, and technology, and value.

In fact, this is what I call multi-polarity. As in the case of uni-polarity it is not only about the political and strategic map of the world, but also the paradigmatic philosophical foundations of the future world order.  We can not exactly say that the “uni-polar moment” has finally been completed. No, it is still continuing, but it faces a growing number of problems. We must put an end to it – eradicate it. This is a global revolution, since the existing domination of the West, liberalism and globalism completely controls the  world oligarchy, financial and political elites.

So they just will not simply  give up their positions. We must prepare for a serious and intense battle.   Multi-polarity will be recaptured by the conquered peoples of the world in combat and it will be able to arise only on the smoking ruins of the global West.  While the West is still dictating his will to the rest, to talk about early multipolarity  – you must first destroy the Western domination on the ground.   Crisis – this is much, but far from all.

- If we accept the thesis of the paradigmatic transition from the current unipolar world order model to a new multi-polar model, where the actors are not nation-states, but  entire civilizations, can it be said that this move would entail a radical change in the very human identity?

- Yes, of course. With the end of the unipolar moment, we are entering a whole new world. And it is not simply a reverse or a step back, but it is a step forward to some unprecedented future, however, different from the digital project of “lonely crowds”, which is reserved for  humanity by globalism. Multi-polar identity will be the complex nonlinear collection of different identities – both individual and collective, that is varied for each civilization (or even inside each civilization).

This is something completely new that  will be created.

And the changes will be radical. We can not exclude that, along with known identities, civilizations, and offering of  new ways … It is possible that one of these new identities will become the identity of “Superman” – in the Nietzschean sense or otherwise (for example, traditionalist) …  In the “open society” of globalism the individual is, on the contrary, closedand strictly self-identical.

The multi-polar world’s anthropological map will be, however, extremely open, although the boundaries of civilizations  will be defined clearly. Man will again re-open the measurement of inner freedom – “freedom for”, in spite of the flat and purely external  liberal freedom – “freedom from” (as John Mill), Which is actually,  not freedom, but its simulacrum, imposed for a more efficient operation of the planetary masses by a small group of global oligarchs.

- Alexander Gelevich Dugin, you are the creator of the theory of a multi-polar world, which laid the foundation from which we can begin a new historical stage. Your book“The theory of a multi-polar world” has been and is being translated into other languages. The transition to a new model of world order means a radical change in the foreign policy of nation-states, and in today’s global economy, in fact, you have created all the prerequisites for the emergence of a new diplomatic language. Of course, this is a challenge of the global hegemony of the West. What do you think will be the reaction of your political opponents when they realize the seriousness of the threat posed?

- As always in the vanguard of  philosophical and ideological ideas, we first have the effect of bewilderment, the desire to silence or marginalize them. Then comes the phase of severe criticism and rejection. Then they begin to consider. Then they become commonplace and a truism. So it was with many of my ideas and concepts in the past 30 years. Traditionalism, geopolitics, Sociology of imagination , Ethnosociology, Conservative Revolution , National Bolshevism, Eurasianism, the Fourth Political Theory, National-structuralism, Russian Schmittianism, the concept of the three paradigms, the eschatological gnosis, New Metaphysics and Radical Theory of the Subject , Conspiracy theories, Russian haydeggerianstvo , a post-modern alternative , and so on – perceived first with hostility, then partially assimilated, and finally became part of mainstream discourse in academia and politics of Russia, and in part, and beyond.

Each of these directions has their fate, but the diagram of their mastering is approximately identical. So it will be also with the theory of a multipolar world   It will be hushed up, and then demonized and fiercely criticized, and then they will begin to look at it closely, and then accepted. But for all this it is necessary to pay for it and to defend it in the fight.  Arthur Rimbaud said that “the spiritual battle as fierce and hard, as the battle of armies.” For this we will have to struggle violently and desperately. As for everything else.

- In the “Theory of a multipolar world,” you write that in the dialogue between civilizations the responsibility is born by the elite of civilization. Do I understand correctly, it should be a “trained” elite, that is, the elite, which has a broad knowledge and capabilities, rather than the present “elite”? Tell me, what is the main difference between these elites?

- Civilizational elite – is a new concept. Thus far  it does not exist. It is a combination of two qualities – deep assimilation of the particular civilizational culture (in the philosophical, religious, value levels) and the presence of a high degree “of drive,” persistently pushing people to the heights of power, prestige and influence. Modern liberalism channels passion exclusively in the area of economics and business, creating a preference for a particular social elevator and it is a particular type of personality (which is an American sociologist Yuri Slezkine called “mercurial type”) .

The Mercurial elite of globalism, “aviakochevniki” mondialist nomadism, sung by Jacques Attali, should be overthrown in favor of radically different types of elites. Each civilization can dominate, and other “worlds”, not only thievish, mercurial shopkeepers and  cosmopolitans.  Islamic elite is clearly another – an example of this we see in today’s Iran, where the policy (Mars) and economics (Mercury) are subject to  spiritual authority, of the Ayatollah (Saturn).

But the “world” is only a metaphor. Different civilizations are based on different codes. The main thing is that the elite must be reflected in the codes themselves, whatever they may be. This is the most important condition. The will to power inherent in any elite, shall be interfaced with the will to knowledge, that is intellectualism and activism in such a multipolar elite should be wedded. Technological efficiency and value (often religious) content should be combined in such an elite. Only such an elite will be able to fully and responsibly participate in the dialogue of civilizations, embodying the principles of their traditions and engaging in interaction with other civilizations of the worlds.

- How can you comment on the hypothesis that the return to a bipolar model is still possible?

- I think not, practically or theoretically. In practice, because today there is no country that is comparable to the basic parameters of the U.S. and the West in general. The U.S. broke away from the rest of the world so that no one on its own can compete with them. Theoretically, only the West now has a claim to universality of its values, whereas previously Marxism was regarded as an alternative. After the collapse of the Soviet Union it became clear that universalism is only  liberal, capitalist. To resist Western imperialism there can only be a coalition of large spaces – not the second pole, but immediately multiple poles, each of them with its own strategic infrastructure and with a particular civilizational, cultural and ideological content.

- How real is the sudden transition to a non-polar model? What are the main disadvantages of this model?

- Passage to a non-polar model, about which leaders are increasingly talking of in the Council on Foreign Relations (Richard Haass, George Soros,etc.), means the replacement of the facade of a uni-polar hegemony, the transition from the domination based on military and strategic power of the United States and NATO (hardware ) to dispersed domination of the West as a whole (software). These are two versions – hard-hegemony and soft-hegemony. But in both cases the West, its civilization, its culture, its philosophy, its technologies, its political and economic institutes and procedures come out as the standard universal model.  Over the long term, this will indicate  the transfer of power to a “world government”, which will be dominated by all  the same Western elites, the global oligarchy. It will then  discard it’s  mask and will act directly on behalf of the transnational forces. In some sense non-polarity is worse than uni-polarity, though, it would seem hard to believe.

Non-polarity itself, and even more sharply and rapidly, will not yet begin. For this, the world must go through the turmoil and trials until a desperate humanity itself cried for the world elite with a prayer for salvation. Prior to that, to weaken the power of the United States, world disasters occur, and war. Non-polar world under the control of a world government, consisting of direct representatives of the global oligarchy,  is expected by many religious circles as the coming “of the kingdom of the Antichrist.”

As for the “shortcomings” of such a model, I believe that it is just  “a great parody of” the sacred world empire, which  Rene Guenon warned of in his work The Reign of Quantity and the Signs of the Times. This will be a global simulacrum.  To recognize these “deficiencies” will  not be so easy, otherwise opposition “to the antichrist” would be too simple a matter, and the depth of his temptation would be insignificant.

The true alternative is a multi-polar world, everything else – evil in the truest sense of the word.

- The “counter-hegemony” by Robert Cox, who you mention in your book aims to expose the existing order in international relations and raise the rebellion against it. To do this, Cox called for the creation of counter-hegemonic bloc, which will include political actors who reject the existing hegemony. Have you developed the Fourth Political Theory as a kind of counter-hegemonic doctrine that could unite the rebels against the hegemony of the West?

- I am convinced that the Fourth Political Theory fits into the logic of building counter-hegemony, which Cox spoke of. By the way, also inthe proximity of critical theory in the MO theory, and multi-polar world is a wonderful text by Alexandra Bovdunova ,voiced at the Conference on the Theory of a multipolar world in Moscow, Moscow State University on 25-26 April 2012 .

4PT is not a complete doctrine, this is still the first steps toward the exit from the conceptual impasse in which we find ourselves in the face of liberalism, today rejected by more and more people around the world, in the collapse of the old anti-liberal political theories – Communism and Fascism. In a sense, the need for 4PT – is a sign of the times, and really can not be disputed by anyone. Another matter, what will be 4PT in its final form. The temptation appears to build it as a syncretic combination of elements of previous anti-liberal doctrines and ideologies …

I am convinced that we should go another way. It is necessary to understand the root of the current hegemony. This coincides with the root of modernity as such, and it grows from the roots of modernity in all three pillars of political theories – liberalism, communism and fascism. To manipulate them to find an alternative to modernity and liberalism, respectively, and of the liberal hegemony of the West, is in my view, pointless. We must move beyond modernity in general, beyond the range of its political actors – individual, class, nation, state, etc.

Therefore 4PT as the basis of a counter-hegemonic planetary front should be constructed quite differently. Like the theory of a multipolar world 4PT operates with a new concept – “civilization”, but 4PT puts special emphasis on the existential aspect of it. Hence the most important, the central thesis of 4PT that its subject is the actor -  Dasein. Every civilization, its Dasein, which means that it describes a specific set of existentials. On their basis, should be raised a new political theory  generalized at the following level into a “multipolar federation Of Dasein” as the concrete structure of counter – hegemony. In other words, the very counter-hegemony must be conceived existentially, as a field of war between the inauthentic globalization (global alienation) and the horizon of authentic  peoples and societies in a multipolar world (the possibility of overcoming the alienation  of civilizations).

- When we talk about cognitive uprising, however first of all, our actions should be aimed at the overthrow of the dictatorship of the West?

- The most important step is the beginning of the systematic preparation of a global revolutionary elite-oriented to multi-polarity 4PT. This elite must perform a critical function – to be a link between the local and global. At the local level we are talking about the masses and the clearest exponents of their local culture (religious leaders, philosophers, etc.). Often, these communities do not have a planetary perspective and simply defend their conservative identity before the onset of toxic globalization and Western imperialism.

Raising the masses and the traditionalist-conservatives  to a realized uprising in the context of a complex union of a counter-hegemonistic block is  extremely difficult. Simple conservatives and their supportive mass, for example, of the Islamic or Orthodox persuasion are unlikely to realize the necessity of  alliances with the Hindus or the Chinese. This will be the play  (and they are already actively playing it) of the globalists and their principle of “divide and conquer!” But the revolutionary elite, which is the elite, even within a particular traditionalist elite of society, should take the , heartfelt deep and deliberate feelings of local identity and correlate it within a total horizon of multi-polarity, and  4PT.

Without the formation of such a elite the revolt against the  post-modern world and the overthrow of the dictatorship of the West will not take place. Every time and everywhere   the West has a problem, he will come to the aid of anti-Western forces, which, however, will be motivated by narrow bills to specific civilizational neighbors – most often, just as anti-Western as they are. So it will be and already is the instrumentalization of globalists of various conservative fundamentalist and nationalist movements. Islamic fundamentalists to help the West is one. European nationalists – is another. So a “unipolar moment” extends not only to exist in itself, but also playing the antagonistic forces against him. The overthrow of the dictatorship of the West will become possible only if this strategy  will be sufficient enough to create or make appear a new counter-hegemonic elite. A initiative like Global Revolutionary Alliance – the unique example of really revolutionary and effective opposition to hegemony.

- You have repeatedly said that Eurasianism is a strategic, philosophical, cultural and civilizational choice. Can we hope that the political course chosen by Vladimir Putin (establishment of a Eurasian Union ) Is the first step towards a multipolar model?

- This is a difficult question. By himself, Putin and, especially, his environment, they act  more out of inertia, without calling into question the legitimacy of the existing planetary status quo. Their goal – to win his and Russia’s  rather appropriate place within the existing world order. But that is the problem: a truly acceptable place for Russia is not and can not exist, because the “uni-polar moment”, as well as the globalists stand for the desovereignization of Russia, eliminating it as an independent civilization, and strategic pole.

This self-destruction seems to suit, Dmitry Medvedev and his entourage (INSOR) for he was ready to reboot and go for almost all of it. Putin clearly understands the situation somewhat differently, and his criteria of “acceptability” is also different. He would most of all psychologically  arrange  a priority partnership with the West while maintaining the sovereignty of Russia. But this is  something  unacceptable under any circumstances to the unipolar globalists -  practically or theoretically.

So Putin is torn between multipolarity, where he leads the orientation of  sovereignty and Atlanticism, where he leads the inertia and the tireless work of a huge network of influence that permeates all of the structure of Russian society. Here’s the dilemma. Putin makes moves in both directions – he proclaims multi-polarity, the Eurasian Union, to protect the sovereignty of Russia, even spoke of the peculiarities of Russian civilization, strengthening vertical power, shows respect (if not more) to Orthodoxy, but on the other hand, surrounds himself with pro-American experts (eg, “Valdai Club”), rebuilds, education and culture under the globalistic Western models, has a liberal economic policy and suffers comprador oligarchs, etc.

The field for maneuver Putin is constantly shrinking. The logic of the circumstances pushes him to a more unambiguous choice. Inside the country this uncertainty of course causes growing hostility, and his legitimacy falls.

Outside the country  the West only increases the pressure on Putin to persuade him towards globalism and the recognition of “unilateralism”, specifically – to cede his post to the Westerner Medvedev. So Putin, while continuing to fluctuate between multipolarity and Westernism, loses ground and support here and there.

The new period of his presidency will be very difficult. We will do everything we can to move it to a multipolar world, the Eurasian Union and 4PT. But we are not alone in Russian politics – against us for influence in Putin’s circles we have an army of liberals, agents of Western influence and the staff of the global oligarchy. For us, though, we have the People and the Truth. But behind them – a global oligarchy, money, lies, and, apparently, the father of lies. Nevertheless, vincit omnia veritas. That I have no doubt.